Ipocondria e trattamento
L’ipocondria viene definita dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV tr) come la preoccupazione dovuta alla convinzione di avere una malattia grave. Tale convinzione erronea è causata dall’ interpretazione scorretta di alcune sensazioni corporee e persiste nonostante un’accurata valutazione medica escluda la presenza di una condizione di patologia tale da giustificare la preoccupazione ipocondriaca.
Secondo il manuale (DSM-IV tr), i criteri per fare diagnosi di Ipocondria sono:
Il trattamento
Fino agli anni 70 e 80 non esisteva alcun trattamento validato per la cura dell’Ipocondria. Solo negli anni 90, la considerazione che i meccanismi implicati nei disturbi d’ansia fossero molto simili a quelli tipici dell’ipocondria e che dunque le modalità di trattamento potessero essere assimilabili, ha portato la ricerca a elaborare e testare alcuni modelli di trattamento. Negli stessi anni si assiste ad un incremento anche delle ricerche in farmacoterapia per il trattamento dell’ipocondria. Sempre partendo dalla considerazione che l’ipocondria sia associata quasi sempre all’ansia e sovente anche a sintomi depressivi, la farmacoterapia del disturbo consiste oggi prevalentemente nell’associazione tra antidepressivi e ansiolitici.
Oggi, la comunità scientifica internazionale riconosce alla terapia cognitivo comportamentale lo status di trattamento di comprovata efficacia per la cura dell’Ipocondria e ne suggerisce l’applicazione dal momento che la sua efficacia è stata validata in diversi studi sperimentali (Barsky & Ahern, 2004; Bouman & Visser, 1998; Clark, Salkovskis, Hackman, Wells, Fennell, Ludgate, Ahmad, Richards, & Gelder, 1998; Visser & Bouman, 2001; Warwick, Clark, Cobb, & Salkovskis, 1996; Taylor & Asmundson, 2004) e in setting clinici “reali” (Salkovskis et al. 2005).
Da un certo punto di vista, l’intero trattamento può essere interpretato come un’estesa e dettagliata costruzione di un modello alternativo di comprensione dei sintomi corporei spiacevoli che il paziente sperimenta (Wells, 1999).
Spesso I pazienti ipocondriaci provano vergogna nel parlare delle malattie che temono di avere. Sia i pazienti che i terapeuti cominciano la terapia con aspettative molto diverse l’uno dall’altro. I terapeuti credono che il paziente sia cosciente di avere un problema psicologico e ritenga che la terapia sia l’unica cosa di cui ha bisogno. I pazienti, invece, sono convinti di avere un problema medico e che la terapia sia l’ultima cosa di cui hanno realmente bisogno.
Il terapeuta riconosce al paziente che i sintomi che egli sperimenta sono reali e devono essere presi sul serio. Questi pazienti, infatti, si sono sentiti ripetere probabilmente per lungo tempo che i loro sintomi sono “tutti nella mente” quando, in verità, i sintomi che sperimentano sono assolutamente reali.
I pazienti ipocondriaci interpretano erroneamente le sensazioni corporee e le informazioni relative al proprio stato di salute attribuendo loro una pericolosità di gran lunga superiore a quella che in realtà hanno. Spesso, non prendono neppure in considerazione l’ipotesi meno pericolosa e più probabile in grado di dare conto dei sintomi che sperimentano. Il nucleo fondamentale della terapia del paziente ipocondriaco consiste nell’ aiutarlo a “dismettere” un’interpretazione dei sintomi basata sulla credenza dell’esistenza di una malattia fisica e di costruire insieme a lui un’ipotesi alternativa tramite delle specifiche tecniche cognitive e comportamentali.
In generale, però, i pazienti Ipocondriaci si rivolgono difficilmente ai professionisti della salute mentale e ancora più difficilmente si impegnano in un percorso psicologico. Un intervento psicoeducativo, a tale proposito, può costituire un “passaggio intermedio” utile per il paziente sia nel caso che egli decida di rivolgersi poi ad una psicoterapia, sia per i benefici che esso stesso può offrire al paziente nel caso in cui egli non decida di intraprendere un percorso terapeutico.
La psicoeducazione consiste in linea generale in alcune sessioni (condotte spesso in gruppo) che hanno l’obiettivo di fornire al paziente informazioni specifiche sul disturbo e nel farlo in maniera mirata. Il paziente e il clinico, all’interno del setting psicoeducativo, si trasformano in allievo e insegnante.
Una recente ricerca ha evidenziato l’efficacia della psicoeducazione di gruppo nel trattamento di alcuni disturbi (Lukens & McFarlane, 2004), rilevando che la psicoeducazione soddisfa i criteri per essere classificata all’interno della Categoria 2 (intervento probabilmente o potenzialmente efficace) tra gli interventi terapeutici di comprovata efficacia (Chambless & Hollon, 1998).
Da un punto di vista cognitivo comportamentale, la psicoeducazione rappresenta di per sé un intervento di “riattribuzione” molto importante che consiste nel fornire al paziente un modello di funzionamento del disturbo e un razionale di quella che potrebbe essere la terapia senza però intraprendere con lui un reale percorso psicoterapeutico. Il primo obiettivo è quello di modificare l’interpretazione che il paziente dà del suo stesso disturbo più che alleviare i suoi sintomi.
Un’ imponente meta analisi degli studi sui trattamenti psicosociali e farmacologici per la terapia dell’ipocondria è stata condotta nel 2005 da Steven Taylor e Gordon Asmundson. La ricerca scientifica dimostra che la terapia cognitivo-comportamentale abbinata alla fluoxetina possa essere ritenuta il trattamento d’elezione per la terapia dell’ipocondria e di forme “attenuate” (abriged). La psicoeducazione risulta essere comunque indicata quanto la terapia cognitivo comportamentale nel trattamento di forme di ansia legata alla salute meno severe o che, per qualche motivo, non soddisfano pienamente i criteri diagnostici dell’ipocondria.
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