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Ca' pesaro, ovvero l'altra parte della biennale
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Ca' Pesaro, ovvero l'altra parte della Biennale di Marco Mondi
Lo scenario cultural-artistico della Venezia d'inizio secolo non si scostava poi di molto da quel provincialismo diffuso un po' ovunque in tutta l'Italia. L' isolamento , non solo geografico-lagunare, rendeva in ogni caso, nella città veneta, il prolungamento dell' humus ottocentesco nel nuovo secolo ricco di sfumature spiccatamente decadenti e del Decadentismo, Venezia, fu forse la città che più, oltre ad ispirare, subì il fascino del mito estetico del Poeta-Vate, vero propulsore di gusto e cultura in tutta la penisola.
Il 1895 vide la creazione, in concomitanza con l'ufficiale celebrazione del 25° anniversario di matrimonio di re Umberto I, della Biennale veneziana che fu giustamente definita "la prima apertura dell'arte italiana in uno spazio europeo" .
Le Esposizioni dei Giardini si rivelarono subito, al di là del clima artificiosamente estetizzante di una mondanità che alzava i calici alla propria apocalypse joyeuse in una cornice unica come quella che la città lagunare offriva, una vera finestra aperta sul mondo artistico europeo: una finestra dove non solo Venezia poté affacciarsi ma l'Italia intera. Sulla Biennale infatti, furono puntati gli occhi dell'Italia intellettuale e da essa presero spunto molte altre istituzioni che di lì a pochi anni vennero fondate nelle maggiori città della penisola coadiuvate, fatto di primaria importanza, dal prolificare di numerosissime riviste, indiscutibili testimonianze di una volontà diffusa d'uscire da quell'isolamento provinciale che, da Canova in poi, la nostra arte sembrava condannata. Basta però sfogliare i cataloghi dei primi decenni delle Esposizioni veneziane e scorrere l'elenco delle personalità invitate per convincersi dell'indirizzo social-artistico perseguito dall'importante istituzione, che non fu ne' un errore di scelta, ne' semplicemente una limitatezza di vedute, ma un deciso tentativo di far sopravvivere una cultura ormai anacronistica. Questo non impedì che, sporadicamente, fossero esposte opere della più genuina arte allora contemporanea. E fu a queste che la giovane Italia guardò. Alla vigilia del centenario della Biennale veneziana, bisogna riconoscere che uno dei suoi più alti meriti fu permettere l'esistenza, non formalmente ma come fucina d'arte moderna, di Ca' Pesaro, ovvero l'altra parte della Biennale stessa.
Nel gennaio 1899 si spense l'illustre Felicita Bevilacqua La Masa. L'accorta duchessa lasciò per testamento, redatto l'anno prima, al comune di Venezia la poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto che ivi vi si tenessero "esposizioni permanenti di arte ed industrie veneziane. ...specie per i giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'ingresso alle grandi mostre, per cui sconosciuti e sfiduciati non hanno mezzi da farsi avanti e sono sovente costretti a cedere i loro lavori a rivenduglioli ed incettatori che sono i loro vampiri" . Altre clausole del testamento prevedevano la trasformazione in studi e ricoveri per quei giovani artisti di una parte del palazzo e di un'altra parte da destinarsi ad essere affittata allo scopo di garantire un reddito per il funzionamento dell' Opera .
Scrive Nino Barbantini nel 1953: " ...I fasti di Ca' Pesaro non ebbero inizio che nel '10 quando ci raggiunsero due tele, il Muto e la Fanciulla in fiore..." di Gino Rossi. Fu l'inizio della polemica con la Biennale. In realtà, sulla carta, la Fondazione Bevilacqua La Masa esisteva fin dal 1905 ma, per la mancanza di un responsabile organizzativo, non vennero svolte opere propositive o organizzative. Bisognò attendere il 1907, quando fu, vincitore del concorso indetto, proclamato Nino Barbantini direttore della Galleria Internazionale d'Arte Moderna (fin dal 1902 alloggiata nel piano nobile del palazzo longheniano) e segretario dell' Opera Bevilacqua La Masa. Il ventitreenne ferrarese si rese ben presto conto dell'opportunità che gli si offriva: già nel 1908 fu allestita la prima mostra, senza catalogo purtroppo, alla quale parteciparono, come richiamo, anche gli artisti veneti allora più acclamati. Dal 1909 le mostre si susseguirono regolari e non serve qui riassumere la ben documentata querelle che tanto clamore sollevò a Venezia e in Italia. Basti ricordare alcune considerazioni e fatti. In primis , la doppia valenza della Biennale: polo che attirava e proponeva talvolta interessantissime presenze e, dall'altro, organizzazione che, per scelte direzionali, rifiutava di accogliere quelle che erano le testimonianze di una nuova realtà sociale suscitando quindi, una volontà di ribellione che trovò in Ca' Pesaro la sua voce più autentica.
Venezia inoltre, fu sicuramente in quegli anni uno dei centri artisticamente più fervidi dell'intera penisola. Vi fu il passaggio della meteora Modigliani e fin dal 1909, in continuo contatto con Ca' Pesaro, i futuristi la scelsero come primo approdo per la loro incendiaria polemica. L'anno successivo le sale di Palazzo Pesaro ospitarono la prima mostra personale di Umberto Boccioni. D'Annunzio aveva lanciato a Venezia e lanciava il suo fervore interventista e già le riviste di tutt'Italia identificavano nelle due istituzioni artistiche della città gli antipodi di due culture che si scontravano di continuo in tutto il territorio nazionale. Intanto, le mostre di Ca' Pesaro si schieravano sempre più apertamente contro le selettive esposizioni della Biennale, fino a quello che fu l'anno più caldo dell'intera polemica, il 1913, quando la mostra palatina rischiò la chiusura. Scrive ancora Barbantini, sulla mostra del '13: "... [suscitò] tra i ben pensanti uno scandalo tale che in città non si parlava d'altro e se ne parlò molto anche fuori. Nelle sale non si respirava, tant'era la folla. I giornali polemizzavano, i pittori e i clienti dei caffè, chi per noi chi contro di noi, se ne dicevano di tutti i colori..." Solo negli anni '50 del Settecento Venezia si divise in fazioni tanto agguerrite l'un l'altra per motivi d'arte: e furono ancora le novità, teatrali, di Carlo Goldoni allora, in un momento chiave della storia della Serenissima, a lottare contro il perdurare di una tradizione gozziana e chiariniana che lo costrinse in fine (come dopo la guerra i nostri capesarini) al volontario esilio parigino pur di continuare a far vivere la propria arte.
Dopo il 1913 Nino Barbantini, pur sempre dipendente del comune di Venezia, dovette cercar di moderare le polemiche ed accentuare il suo ruolo di mediazione, visto il debordare politico delle controversie. Tanto più quando nel '14 sembrò che le due istituzioni potessero finalmente collaborare: progetto ben presto abbandonato.
Eventi di ben altra portata si prospettavano però alle porte di un'Italia sempre più convinta al bel gesto e a vedere nella guerra la "sola igiene del mondo" . Spinti dal clamore interventista celebrato dal superuomo-tribuno dannunziano, tanti giovani, capesarini compresi, intrapresero una avventura dalla quale per molti non vi fu ritorno. L'entusiasmo iniziale fu ben presto soppiantato dalla fredda logica della realtà bellica e la guerra stessa, come ebbe a dire Gozzano, "ritolse tutte le sue promesse . L'evento bellico pose fine all'Ottocento, spintosi ormai per quasi due decenni nel nuovo secolo, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il popolo smarrimento e nuovi gravi problemi. L'Italia, delusa dalla "vittoria mutilata" , dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e culturalmente diversa da quella che si credeva essere.
Nel giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca' Pesaro si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera dell'Italia artistica del dopoguerra. La riapertura di Ca' Pesaro del 1919 fu definita "il maggior convegno artistico che si aprì dopo la guerra" . Spettava, nel 1920, alla Biennale allestire una esposizione che, oltre a proporre a livello nazionale ed internazionale un sunto delle più importanti espressioni figurative dell'anteguerra, accogliere anche le tendenze di quella che era l'arte del dopoguerra. La Biennale deluse e, ricorda Gino Rossi: "Nessuna esposizione avrà tanti illusi e spostati come la Biennale di quest'anno. Basta leggere i nomi e noi li conosciamo tutti per quel che valgono. Per questa ragione io ti dico che non solo non abbiamo fatto un passo in avanti, ma che ci troviamo in una situazione che più penosa non potrebbe essere." Non fu, come spesso semplicisticamente si ripete, una ristrettezza di vedute: fu un ultimo, disperato, tentativo, che proseguì qualche anno, di riesumare la cultura ottocentesca.
SPUNTI PER L'ESTETISMO ART NOUVEAU
di Marco Mondi
1) - Gli ultimi due decenni del secolo, per l'Italia come per l'Europa, sono caratterizzati da intensi conflitti sociali dove la tradizionale classe dirigente si sente minacciata dall'avanzare della nuova e brulicante massa di persone viste come nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo (ecco perché Divisionismo poco accettato: arte nuova di una società ormai diversa che rimette in discussione l'arte tradizionale espressione di una società tradizionale ed ormai anacronistica). La borghesia intellettuale si chiude in una gelosa difesa dei propri valori e, collegabile a questo, almeno in parte, è (continua in: //xoomer.alice.it/studiomondi/biennali.htm )
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