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Made in italy: quando l’arte insegna a fare impresa
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Made in Italy: quando l’arte insegna a fare impresa
Marco Mondi
La tematica affrontata da Made in Italy: quando l’arte insegna a fare impresa , come è stato ben trattato da Arianna Tassotti, alla quale bisogna rivendicarne ancora una volta il me rito, inizialmente era nata per un contesto diverso e finalizzato alla realizzazione di un convegno, al quale avevamo lavorato insieme. Il contesto era quello bassanese, la sua città, che ha la fortuna di accogliere, per essere una città essenzialmente di provincia, la straordinaria presenza di almeno quattro raggruppamenti di opere, ed in più praticamente tutti in sedi museali, frutto del lavoro di vere e proprie imprese artistiche del passato: Jacopo Bassano e la sua bottega, i Remondini, le manifatture di ceramiche e maioliche e le opere di Antonio Canova. Da imprenditrice, la sua intuizione si basava sul fatto di voler ricercare un collegamento storico e culturale tra questo fervore “produttivo” del passato e l’attuale ambiente imprenditoriale del distretto economico-industriale bassanese, tra i più attivi di un territorio ben più ampio, comunemente chiamato Nord Est. Perché questo fiorire quasi frenetico, negli ultimi decenni, di attività imprenditoriali per la maggior parte fatte di aziende di piccole e medie dimensioni ma capaci di imporsi a livello mondiale, dopo un’apparente letargia di più di un secolo e mezzo? Che collegamenti possibili si possono trovare tra la mentalità imprenditoriale dei nostri giorni e quella che esisteva nel nostro territorio nei secoli passati? La volontà di mirare ad una produzione di qualità cui ambiscono la maggior parte di queste aziende per potersi affermare con forza in un panorama economico-produttivo di globalizzazione, quali rapporti può avere con la realtà artistica che, in passato, ha reso gloriosa la nostra terra in tutto il mondo? Quel marchio di qualità che oggi va sotto il nome di Made in Italy , in che termini può essere messo in relazione e quanto è debitore, nel territorio bassanese, nei confronti di quei vertici artistici toccati in passato? Può, il nostro glorioso passato artistico, insegnare ancora concretamente a fare impresa? Può stimolare ulteriormente le nostre aziende verso una produzione di qualità? Cercare rapporti e legami, confrontando questo fervore imprenditoriale con quelle realtà artistiche dei secoli scorsi là, nei luoghi dove si sono manifestate: Bassano ed il suo territorio; ecco una buona occasione di lavoro! Queste sono solo alcune domande che Arianna Tassotti s’è posta tornando da un incontro per le festività di San Bassiano organizzato, guarda ca so, nelle sale dapontiane del Civico Museo di cittadino. Da lì, le è nata l’idea che sarebbe stato assai interessante e chiarifica tore cercare di dare delle risposte a quei quesiti organizzando un convegno a tal riguardo. Ed un convegno, a dire il vero, là, a Bassano, era più che sufficiente, perché la mostra era già bell’in piedi: al Museo Civico, Jacopo Dal Ponte, la sua bottega e Antonio Canova; a Palazzo Sturm, i Remondini, Antonibon da Le Nove e le altre manifatture di ceramiche e maioliche!
Sviluppare l’idea di Arianna per darne una forma espositiva in Casa dei Carraresi, è stato ben presto un argomento stimolante ed ambizioso sin dalla sua fase progettuale. Ma se Bassano si prestava così “naturalmente” ad un tale lavoro, la città di Treviso, altrettanto ricca dal punto di vista storico ed artistico, presenta a tal riguardo maggiori difficoltà. In più, come già detto, la mostra allestita è un evento collaterale di una manifestazione d’antiquariato, che ha, quindi, endogeni ed inevitabili limiti temporali, organizzativi ed economici. Tuttavia, uno dei limiti che siamo riusciti ad oltrepassare di buona lena, che è principalmente, per taluni, un limite mentale e, per chi scrive, sbagliato, è che anche gli antiquari possono, sfruttando le conoscenze e la professionalità che giunge loro da un lavoro quotidiano a contatto con opere d’arte, fare cultura: l’Adesione del Presidente della Repubblica con messaggio scritto e la con cessione di un patrocinio come quello col quale ci ha onorato l’ENIT - Agenzia Nazionale del Turismo, agenzia che « è lo strumento primario per realizzare le politiche di promozione dell'im magine turistica dell'Italia… nel mondo… » (sono parole tratte dal sito Internet www.enit.it), sono per noi antiquari riconoscimenti più che sufficienti a tal riguardo.
A Treviso, portare solo le realtà di Bassano sarebbe stato limitativo e certamente fuori luogo se queste non fossero state integrate in qualche modo. è stato deciso di provare ad affrontare una mostra con più sezioni, che potessero dare, nel tempo e nelle tipologie produttive, una visione più ampliata e completa, cercando di rimanere il più possibile ancorati al territorio cittadino, ma anche cercando di individuare quelle “aziende” artistiche del passato che potevano permetterci un reperimento delle opere piuttosto agevole (se mai operazioni del genere lo sono!) e che, al tempo stesso, potessero essere da modello non solo per il nostro territorio ma, in un certo senso, per l’Italia stessa. In una provincia come quella di Treviso ed in una regione come quella del Veneto, certo, non c’era che l’imbarazzo della scelta, per ogni epoca si volesse prendere in considerazione (ovviamente, per la natura stessa degli organizzatori, restando nell’ambito delle arti figurative): le possibilità erano davvero pressoché infinite; si trattava di scegliere quelle che per noi potevano sembrar più facili da affrontare soprattutto, come detto, nel reperire quelle opere che potessero in qualche maniera ben rappresentare il nostro scopo. Abbiamo deciso per dieci sezioni perché, nella natura di un evento collaterale qual è Made in Italy: quando l’arte insegna a fare impresa , ci è sembrata la soluzione più semplice per portare avanti tutto il progetto. Un numero minore di sezioni, infatti, come per Bassano, ci avrebbe costretto ad un approccio ben più approfondito di ogni singolo argomento, andando probabilmente ben oltre le nostre capacità, soprattutto a causa dei suddetti limiti, in quanto, com'è ovvio, ognuna delle tematiche affrontate, da sola potrebbe, e probabilmente non sarebbe ancora sufficiente, occupare tutti gli spazi espositivi dedicati all’intera mostra e tutte le pagine di questo catalogo. Dieci sezioni, quindi, ci hanno permesso una disamina abbastanza esaustiva nel suo complesso e al tempo stesso non così impegnativa, ma comunque sufficiente per dare una panoramica piuttosto valida a livello di epoche abbracciate e di tipologie artistiche presentate. Se poi, un approccio del genere all’opera d’arte può sembrare restrittivo, vale la pena ribadire che non era nelle nostre intenzioni trattare l’attività di un artista o di una manifattura da un punto di vista essenzialmente storico-artistico, che pur, per quan to possibile, è stato fatto, bensì semplicemente fornire al frui tore una chiave di lettura integrativa.
In una città come Treviso non potevamo non partire da quel “remoto” Medioevo talvolta così misconosciuto e ancora farcito di una maschera negativa fattagli indossare sin dal Seicento. Sebbene velato, Treviso mantiene un volto medievale tutt’oggi fortemente caratterizzante, nonostante tanti edifici di quell’epoca siano stati cancellati dai disastrosi bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Ma al di là di molte di queste presenze che sono fortunatamente giunte sino a noi, reali e visibili, Treviso è ancora una città di natura e, soprattutto, di pianta medievale, qualità che la fanno essere, come meglio vedremo inoltrandoci nella prima sezione della mostra, una città a misura d’uomo, vivibile e percorribile a piedi, e che permette un grado di vita, non a caso, da “Marca Gioiosa”: quella pianta cittadina che ancora sopravvive è il frutto di un’esperienza urbana cresciuta nei secoli su di un tracciato che è, principalmente, medievale. Da qui, anche, la necessità di ampliare questa sezione, a Ca’ dei Carraresi essenzialmente didattica, ad un itinerario esterno che ci facesse camminare per la città attraverso sinuose e strette vie e viuzze, da una piazza all’altra, da un borgo all’altro, facendoci così vivere la sua più genuina dimensione medievale.
La necessità di affrontare il Medioevo, era comunque d’obbligo, perché a partire dal secolo dell’anno Mille, con il “germe” della nascita dei Comuni, prende avvio un nuovo modo di intendere la vita sociale, culturale ed economica che, gradualmente, ci conduce al Rinascimento e all’epoca moderna. Si tratta quindi, in un certo senso, di una sezione introduttiva alle se-zioni successive, in ognuna delle quali, poi, s’è cercato di entrare nello specifico della “vita” di una bottega o di una vera e pro pria attività imprenditoriale di questo nostro ricco passato ar tistico. Le opere presentate in questa sezione servono, per ov vie ragioni, essenzialmente a suffragare visivamente un discorso squisitamente panoramico, che trova un suo naturale proseguimento, ben più rappresentativo e qualificante, nelle sale del museo cittadino e, come detto, nelle altre realtà medievali presenti in città (tracciato urbanistico-viario in primis ).
Con la sezione dedicata a Jacopo Bassano (Bassano, 1510 - 1592) e alla sua bottega, si entra in pieno nel Rinascimento per poi giungere, passando attraverso il Manierismo, fino alla metà del XVII secolo, andando a prendere come modello oramai “ma turo” un’azienda imprenditoriale di gran successo per l’epoca. Le opere qui presentate, contemplano principalmente lavori di bottega, anche perché sono questi quelli che rappresentavano, quantitativamente, quella produzione copiosissima destinata ad arricchire tantissime collezioni venete, ma non solo; opere eseguite da una folta schiera di pittori che talvolta, sotto la super visione diretta del maestro, ottenevano risultati tutt’altro che trascurabili. Resta inteso che la genialità di Jacopo rimane irraggiungibile anche per i più dotati dei suoi figli ed è la sua produzione che ha garantito quel marchio di qualità che permetteva alla bottega di aver rinomanza, e quindi committenze, anche internazionale. Con il genio di Bassano, si è anche azzardato un raffronto con le contemporanee “ville fattorie” che il Palladio andava edificando in terraferma, tracciando un parallelo pittorico che è forse il maggior contributo che questa sezione dà alla storia dell’arte, anche nell’attesa delle celebrazioni dapontiane che tra breve avranno inizio. Ancora una volta, il museo cittadino verrà in aiuto là dove era impensabile avere capolavori del maestro come, ad esempio, la Crocifissione di San Teonisto (1562 - 1563) che, tra l’altro, segna un momento di passaggio fondamentale dell’arte di Jacopo da un manierismo formale portato talvolta a vertici di vera e propria astrazione “allucinata” ad una ricerca compositiva più contenuta ma che sposta l’attenzione dell’artista verso un luminismo cromatico sempre più accentuato, modellato su un colore più freddo ed illividito, di ascendenza veronesiana, avvallando quel collegamento col Palladio, che alla maestria di Paolo Veronese era ricorso più volte per la decorazione in affresco delle sue ville. Anche questa sezione, oltre che al Museo Civico di Treviso, trova il suo naturale proseguimento in un itinerario esterno che ci conduce sino al Museo di Bassano del Grappa, luogo insuperabile per ogni approfondimento su Jacopo Dal Ponte e la sua bottega. In ogni caso, la presenza di incisioni in mostra (quel “mezzo di comunicazione” che un tempo, in un certo senso, aveva la funzione che ha oggi la fotografia), cercherà di sopperire, almeno iconograficamente, alla mancanza di originali.
All’incirca negli stessi anni, un’altra azienda, la bottega di Nicolò Roccatagliata (Genova, 1559 - Venezia, 1629), a Venezia, ci è servita per affrontare, nella terza sezione, un altro genere artistico che ha avuto nella storia grande successo, quello della produzione di bronzi e bronzetti destinati a soddisfare un mercato in crescente espansione che chiedeva agli scultori opere d’arte sì, ma che fossero spesso al tempo stesso anche opere d’arredo d’uso pratico e quotidiano: la produzione, talvolta “se-riale”, di molti di questi bronzetti era, infatti, destinata a divenire maniglie di porte e portali, calamai, urne, lucerne, bruciaprofumi, campanelle, mortai, ecc. Il fervore edilizio che prende av-vio con particolare intensità proprio a partire dal XVI secolo porta con sé tutta una serie di attività che oggi definiremo d’indotto, e che vedono arte ed artigianato mescolarsi in un modo sempre più stretto per mettersi al servizio di una qualità di vita, purtroppo riservata a pochi privilegiati, sempre più raffinata ed esigente: sono esempi di quelle cosiddette “arti minori” o “decorative” per le quali bisognerà attendere le avanguardie storiche del Novecento per dar loro una piena rivalutazione e riconsiderazione in termini strettamente artistici.
Come la bottega del Roccatagliata lo era per il bronzo, quella di Andrea Brustolon (Belluno, 1662 - 1732), attiva tra Venezia e Belluno tra Sei e Settecento, lo è stata per il legno. La recente mostra di Belluno ha ben mostrato come il virtuosismo di questo artista, capace di straordinarie invenzioni, tecnicamente perfette e caratterizzate da un’estrema intensità espressiva, siano il risultato dell’innalzamento di un settore artigianale ai vertici dell’arte europea. La sua opera, messa al servizio dei suntuosi arredi del barocco veneziano, abbellendo gli interni di palazzi e dimore signorili con sedie, poltrone, tavoli, mensole, specchiere ma anche angeli, putti, e festose decorazioni con aggraziate allegorie, forse prima ancora che nelle realizzazioni sa-cre, non solo impersona la capacità artistica di un vero e proprio maestro, certamente scultore prima che intagliatore, ma anche quella del ricercato ambiente culturale veneziano e veneto per cui lui, e la sua bottega, lavorarono con grande successo. Le opere presentate in mostra sono poche, ma ben rappresentative a tal riguardo.
Per le due sezioni successive, invece, le opere esposte allestiscono due vere e proprie mostre nella mostra, estremamente esaustive per materiale proposto e per qualità. I Remondini rappresentano uno degli esempi più sorprendenti della grande imprenditoria veneta del Settecento, attivissima anche in campo internazionale: si tratta di una vera e propria “industria” di stamperia, cartotecnica ed editoria fondata già nel XVII secolo da Giuseppe Antonio Remondini (Padova 1634 ca. - Bassano, 1711) e dinasticamente continuata fin quasi all'annessione del nostro territorio all'Italia, la quale, nei momenti di maggior successo, sotto la tutela della Serenissima Repubblica di Venezia, contava circa un migliaio di dipendenti, centinaia di rivenditori ambulanti e numerosi corrispondenti e collaboratori ed era considerata una tra le allora più grandi industrie d’Europa. Nella sezione ad essi dedicata, sono esposte incisioni, vedute ottiche, carte, libri, oggetti e quant’altro è necessario per dare un’idea il più possibile esaustiva della loro vastissima produzione. Allo stesso modo, la sezione dedicata alla produzione della Fabbrica Fontebasso, azienda attiva, pur poi con gestioni diverse, fino ai nostri giorni a partire dal Settecento, si presenta assai esaustiva, mostrando alcuni tra gli esempi più interessanti di una produzione di ceramiche e di porcellane che la manifattura artistica trevigiana ha realizzato con grande successo in ambito nazionale ed internazionale: per un periodo esemplificativo contenuto tra Neoclassicismo e Romanticismo, sono stati selezionati vasi, coppe, gruppi di statuine e vere e proprie sculture che testimoniano la particolare sensibilità e l’ammirevole capacità dell’azienda di aver saputo interpretare il gusto, le mode e le esigenze di una clientela assai vasta per estrazione sociale ed appartenenza territoriale.
Tra le sezioni di maggior interesse, vi è certamente quel la dedicata ad Antonio Canova (Possagno, 1757 - Venezia, 1822), artista tra i più illustri e geniali del nostro territorio a cavallo tra Sette ed Ottocento, che più di ogni altro “interpretò” lo spirito del Neoclassicismo e che fu anche un grande innovatore nella tecnica scultorea. Nel suo studio a Roma, dove gestiva una vera e propria “impresa” composta da numerosi aiutanti capaci di affiancarlo in ogni fase della produzione, hanno preso forma ca-polavori destinati ad alcuni tra i più importanti personaggi dell’epoca, italiani, europei ed anche americani. In mostra, a coronare la presenza della Venere Italica, tutto un apparato di documentazioni cartacee, pittoriche e di altro genere ci mostra come l’artista operava, fase dopo fase, nella realizzazione dei suoi capolavori e, al tempo stesso, testimonia la straordinaria capacità del maestro di imporre i suoi canoni estetici e la sua personalità anche al cospetto dei più grandi personaggi storici dell’epoca, come Napoleone, il re d’Inghilterra Giorgio IV, il principe Ludwig di Baviera, l’Imperatore Francesco, Papa Pio VII, e tanti altri ancora.
In pieno Ottocento, l’intraprendente personalità di Carlo Naya (Tronzano Vercellese, 1816 - Venezia, 1882) ci testimonia nell’ottava sezione come l’affermarsi di un nuovo mezzo artistico quale fu, appunto, la fotografia, abbia avuto bisogno di un iter sperimentale lungo e complesso prima di riuscire ad esprimere compiutamente le proprie capacità espressive. Le vedute, le scene e le riprese “al chiaro di luna”, nonché gli scatti di documentazione del patrimonio artistico presentati, sono solo alcune delle tematiche affrontate da Carlo Naya nella sua ricca carriera artistico-documentariale e nella sua importante attività imprenditoriale, che lo portò a fondare a Venezia uno stabilimento fotografico che poteva considerarsi il più importante del Veneto e uno dei maggiori in Italia il quale, col nome di “Ditta Naya”, continuò ad operare con grande successo nazionale ed internazionale anche dopo la sua morte, fino al 1918, quando fu rilevato da Osvaldo Bohm. I suoi scatti, ci testimoniano un’attività che sa ispirarsi e sa affiancarsi ai grandi movimenti cultural-artistici dell’epoca, dal Romanticismo al Realismo sin anche al Simbolismo.
Tra le sezioni sicuramente più affascinanti, quella dedicata a Mariano Fortuny (Granada, 1871 - Venezia, 1949), « questo spagnolo di Venezia », come lo chiamò Ojetti, si impone per fasto e ricchezza scenografica; e così non può che essere quando si va a trattare una delle personalità artistiche più intriganti e geniali attive tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Si può dire che non vi sia campo creativo nel quale Mariano Fortuny non si sia cimentato, dalla pittura alla fotografia, dalla scenografia al design ; ma certo sono i suoi tessuti, dal fascino magico ed incantato, che hanno contribuito maggiormente ad imporre la sua personalità a livello internazionale. In un universo dalle mille ispirazioni formali e cromatiche che ci fa respirare ancora oggi un alito dell’atmosfera decadente d’inizio secolo, le sue straordinarie qualità di grande innovatore di gusti e di mode, ma anche di tecniche (tuttora custodite con gelosia e segreto), lo portarono a fondare nel 1921 alla Giudecca a Venezia la ditta “Tessuti Artistici Fortuny S.p.A.”, che ha dato vita ad una produzione di stoffe, ben rappresentate in mostra, di straordinaria qualità, destinate ad avere ben presto un successo immenso, andando a decorare salotti e saloni di re, principi, emiri, attori e personaggi dello spettacolo di mezzo mondo.
L’ultima sezione, la più cristallina e forse elegante per le sobrie essenzialità e le limpide trasparenze delle opere tratta te, ci presenta un artista che, tra i suoi molteplici interessi, portò un contributo essenziale ad un settore economico-produttivo da sempre di grande importanza per la città di Venezia: quello dell’“industria” del vetro di Murano. Vittorio Zecchin (Murano, 1878 - 1947), che si formò nell’ambiente dei giovani artisti di Ca’ Pesaro assieme a Gino Rossi, Arturo Martini, Felice Casorati e tanti altri, fu tra i primi maestri veneti del Novecento a dare grande importanza alle cosiddette arti decorative, contribuendo a riscattarle da quel limbo di arti minori in cui per secoli erano state rilegate. Già alle prime Biennali del secondo decennio del XX secolo presentò, assieme a Teodoro Wolf Ferrari, una produzione di vetri-mosaico e di murrine che suscitò grande interesse; ma fu dal 1921, quando il commerciante veneziano Giacomo Cappellin ed il giovane avvocato lombardo Paolo Venini diedero vita alla “Vetri Soffiati Muranesi Cappellin, Venini e C.”, affidandone poco dopo a Vittorio Zecchin la direzione artistica, che, da vero e proprio designer , tra Liberty e Decò, l’artista si fece promotore di quella rinascita e di quel rilancio del vetro di Murano che, dopo la lunga crisi che gravò su questo settore per tutto l’Ottocento, trovò un successo internazionale che dura sino ai nostri giorni. Più che le parole, sono le opere qui presentate che danno un’idea precisa dei vertici qualitativi cui egli è giunto come designer nel campo del vetro; vertici qualitativi dotati di una “modernità” che può essere d’esempio ancora oggi.
Con Fortuny e Zecchin, artisti attivi nel campo del design , si entra in una concezione della produzione industriale che è, sostanzialmente, al di là delle innovazioni tecnologiche, quella in uso ai nostri giorni. Si è voluto di proposito, per ovvie ragioni, non entrare nella contemporaneità. Tuttavia, le realtà artistiche trattate in ognuna delle dieci sezioni, dalle più antiche alle più recenti, non possono che stimolare ed essere tutt’ora prese a modello dall’imprenditore contemporaneo come esempi di qualità produttiva e come esempi di aziende che, per l’epoca in cui operarono, furono tutte aziende all’avanguardia, cioè moderne.
In antichità ed in epoca moderna, ma anche in età contemporanea, sebbene forse in misura minore, l’arte ha sempre rappresentato la punta di diamante di una società in continuo progresso, in cui lo sviluppo tecnologico ed il conseguente benessere economico, nonché culturale e quindi “democratico”, si manifestavano concretamente nella qualità dei manufatti (pittorici, scultorei, architettonici, urbanistici, artigianali, ecc.) realizzati in un determinato momento storico. è ovvio che, in passato, la distinzione che oggi si fa tra arte, artigianato ed impresa non era così netta: l’imprenditoria artigianale ha sempre sorretto ed affiancato l’arte e, nella fattispecie della nostra trattazione, l’una e l’altra vanno quindi intese all’interno di un panorama di strette, continue, indispensabili collaborazioni e reciproche integrazioni, se non, talvolta, addirittura in un tutt’uno inscindibile.
Terminologie come “industria” “cantiere” “fabbrica” “officina” “bottega” e molte altre ancora, in uso corrente nel pas sato artistico di ogni civiltà, servono da sole ad indicare quali strette inerenze e legami vi siano sempre stati tra arte e produzione; terminologie che oggi, in campo artigianale ed industriale, ricorrono con altrettanta frequenza a confermarne una continuità che è, appunto, storica.
La realtà storica, artistica e produttivo-economica della nostra regione può essere assunta come uno straordinario ed eccezionale modello di questa continuità. Al fianco degli antichi “cantieri” sorti ovunque in Europa per la costruzione in epoca medievale, ad esempio, di cattedrali e di palazzi comunali (edifici simbolo di un raggiunto benessere cittadino dove la comunità sfoggiava non solo la propria ricchezza, ma anche le proprie capacità tecniche, artigianali ed artistiche, quindi culturali e di agiatezza), la Regione Veneto accoglie nel suo invidiabile passato numerosi ed importantissimi casi in cui l’arte si è fatta davvero industria, o, per lo meno, proto-industria, di portata internazionale. Gli esempi da noi portati, come mille altri possibili, possono ancora oggi, quindi, ed in alcuni casi lo fanno concretamente, insegnare e stimolare quella “genialità made in Italy ” che è caratteristica peculiare di tanti dei nostri prodotti: per l’imprenditore dell’artigianato, dell’industria e del commercio, ma anche per tutti i fruitori della mostra, un’occasione allora per arricchire, se ce ne fosse bisogno, quella coscienza qualitativa indispensabile al successo di un’azienda proprio in un momento di congettura economica assai difficile, la cui ripresa non può che partire da quella intelligenza e da quel ingegno creatore che hanno reso così glorioso ed unico il nostro passato.
Lo scopo di questa mostra collaterale, si ritorna a ribadire, è evidenziare come l’arte del nostro passato abbia davvero insegnato, ed insegni, a fare impresa, e a fare impresa a livello altissimo e d’avanguardia, sottolineandone una continuità che caratterizza e qualifica ancora oggi il modo di fare impresa nel nostro territorio. A tal riguardo, infatti, la mostra ha cercato di presentare l’opera d’arte non solo per il suo intrinseco ed inscindibile valore storico-artistico ma anche come “prodotto” di una vera e propria azienda imprenditoriale di alta qualità, come in realtà lo fu al tempo in cui fu realizzato: e ciò, a dimostrazione di un’origine che è anche culturale di quello straordinario “fenomeno” che negli ultimi decenni ha portato nel Nord Est il proliferare di un modello imprenditoriale sotto molti aspetti unico, tanto per le piccole quanto per le medie e grandi aziende.
L’esperienza di Made in Italy: quando l’arte insegna a fare impresa , naturalmente, ha molte restrizioni, ma si spera possa essere un primo passo verso lavori futuri più approfonditi ed esaustivi.
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