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Sezione 10. Quando l’artista diventa designer: Vittorio Zecchin al servizio


del vetro di Murano e delle arti applicate



Vittorio Zecchin (Murano, 1878 – 1947) e Mariano Fortuny appartengono pressoché alla stessa generazione e operano nella stessa città, entrambi sentendola, il primo per nascita, l’altro per adozione, storicamente ed artisticamente indispensabile per stimolare la loro indole creativa; ed entrambi si sono dedicati con impegno e successo alle arti applicate. Tuttavia, abbiamo visto come l’ambiente artistico-imprenditoriale in cui Fortuny si mosse fu sostanzialmente un ambiente d’élite, che trovava in una cultura ottocentesca oramai entrata nel nuovo secolo le ragioni della propria esistenza. Con Vittorio Zecchin si vanno a toccare alcune realtà dell’epoca di una società in fervente evoluzione, quella veneziana, vista più dal basso che dall’alto.


Negli anni a cavallo del secolo, Venezia tornò a vivere una dimensione nuovamente internazionale e cosmopolita, che l’andava gradualmente liberando da qual provincialismo in cui, come il resto d’Italia, era stata rilegata per tutto il XIX secolo. La veste romantica che aveva assunto e che gli era stata fatta indossare, trovava adesso sbocco in una politica amministrativa che permise alla città, da sempre metà di un “turismo” ricco e colto, di essere anche, grazie ad un rilancio del Lido, una stazione balneare internazionale e alla moda; e si stava improntando anche una politica accorta di sviluppo economico ed imprenditoriale che darà vita, grazie a figure come il conte Volpi di Misurada, al polo industriale di Marghera, tra i più importanti d’Italia. Nel campo dell’arte, con l’istituzione della Biennale di Venezia nel 1895, evento davvero eccezionale e « prima apertura dell’arte italiana in uno scenario europeo » (Perocco), la città si trovò in breve tempo ad essere “palco scenico” e “laboratorio” di portata internazionale. Contestual mente alla nascita della Biennale, grazie all’accorto lascito testamentario della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa a favore del Comune della poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro, sorgeva a Venezia un altro centro espositivo (dal 1908) di primaria importanza, destinato a divenire l’altra faccia della Biennale e di tanta arte italiana. Le mostre ai Giardini, infatti, almeno fino all’avvento di Vittorio Pica a capo della segreteria generale (e siamo nel 1920!), furono l’espressione di una cultura figurativa ancora essenzialmente ottocentesca; la reazione dei cosiddetti “ribelli” di Ca’ Pesaro, con le loro mostre “aperte” in continua contrapposizio ne alla “chiusura” della Biennale, sarà determinante per il prosie guo in senso moderno di tutta l’arte italiana. Per un decennio almeno, sulla Venezia della Biennale e di Ca’ Pesaro, e sulle loro prime accese polemiche, si concentrarono le attenzioni dell’arte e della critica nazionali più accorte.


Vittorio Zecchin, figlio di un vetraio muranese, non senza difficoltà s’iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Venezia e ne uscì, sostanzialmente, pittore. Nel giro di poco tempo entrò a far parte del gruppo di giovani artisti di Nino Barbantini, segretario della neo-nata “Fondazione Bevilacqua La Masa”, che erano Gino Rossi, Arturo Martini, Felice Casorati, Umberto Moggioli ed anche, indirettamente, Umberto Boccioni ed i Futuristi; insomma, quanto di meglio aveva la giovane arte italiana. Degli artisti di Ca’ Pesaro ne divenne ben presto uno dei principali protagonisti, esponendo con regolarità pressoché a tutte le mostre sul Canal Grande, e, com’era naturale per un artista nato a Murano, il suo interesse per le arti decorative si risvegliò altrettanto presto: già alla mostra capesarina del 1912, nell’ambito del gruppo de’ “L’Aratro”, dopo l’infatuazione klimtiana alla Biennale del 1910 vissuta attraverso gli stilemi di un Toorop, si sente nelle sue pitture una svolta verso le arti applicate, che si concretizzò l’anno successivo attraverso il sodalizio con l’amico “secessionista” d’impronta monacense Teodoro Wolf Ferrari, assieme al quale concepì tutta una serie di murrine a vetro mosaico e di vetri, fatta realizzare dall’officina vetra ria “Artisti Barovier” di Murano, che presentò all’Esposizione d’arte decorativa di Monaco del 1913 e, con ogni probabilità, anche alla Biennale del 1914. Se poi andiamo ad analizzare quello che è considerato il suo capolavoro in pittura, il ciclo de’ Le mille e una notte , commissionato dal signor Indri per l’Hotel Terminus verso il 1914, eccezionale “sogno” orientale e decadente filtrato dal gusto liberty veneziano d’inizio secolo sulla base di un testo persiano ed in grado di rievocare in chiave moderna gli antichi splendori cromatici importati da Bisanzio e dall’Oriente, ci si accorge che in quella complessa architettura cromatico-compositiva Vittorio Zecchin, da pittore, si trasforma in una sorta di direttore dell’esecuzione pittorica. Queste esperienze non tardarono a concretizzarsi ulteriormente allo scoppio della Prima Guerra Mondiale quando, claudicante, fu costretto ad una sorta di solitario ritiro nella sua Murano, dove decise di far suo un vecchio convento nei pressi di San Donato e, richiamando le giovani donne dell’isola, fondare un vero e proprio laboratorio per arazzi, che D’Annunzio non esitò di definire nella sua La Leda senza cigno un « monastero senza monache » nel quale il « grande artiere Zecchin da Murano... mangiò la polenta nella Valle dei sette morti ».


La guerra, intanto, aveva cambiato tutto e, come ebbe a dire Gozzano, « ritolse tutte le sue promesse ». L’entusiasmo iniziale che sembrò suscitare, fu ben presto soppiantato dalla fredda logica di una realtà ben diversa da quella che si pensava. L’evento bellico pose fine all’Ottocento, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il popolo smarrimento e nuovi gravi problemi. L’Italia, delusa dalla “vittoria mutilata”, dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e culturalmente diversa da quella che si credeva fosse. Nel giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca’ Pesaro, con le loro esposizioni, si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera dell’Italia artistica del dopoguerra: cambiò la Biennale e tra gli artisti di Ca’ Pesaro vi fu una specie di vera diaspora, che pose fine alla prima, grande stagione rivoluzionaria dell’arte italiana.


Vittorio Zecchin, anch’egli uscito da un sogno che s’era fatto incubo, non esitò a guardar in faccia la realtà e a mettere a disposizione le sue conoscenze e le sue qualità a vantaggio di un settore produttivo che da sempre aveva sentito parte della sua vita e che non era ancora uscito da una crisi ormai secolare: una crisi produttiva superata in parte dal punto di vista quantitativo e di conseguente riscontro economico, ma un perdurare di crisi qualitativa che costringeva l’arte del vetro, per i più, ad essere una attività essenzialmente artigianale. Sulla scia dei successi riscossi con le opere d’arte applicata esposte alle mostre, alle quali continuerà a partecipare fin quasi alla fine della sua vita, gli anni Venti, infatti, segnarono la sua piena e completa adesione all’arte e all’industria del vetro. Fu dal 1921, quando il commerciante veneziano Giacomo Cappellin ed il giovane avvocato lombardo Paolo Venini diedero vita alla “Vetri Soffiati Muranesi Cappellin, Venini e C.”, affidandone poco dopo a Vittorio Zecchin la direzione artistica, che, da vero e proprio designer , tra Liberty e Decò, egli si fece promotore di quella rinascita e di quel rilancio del vetro di Murano che trovò un successo internazionale che dura sino ai nostri giorni. In questo settore, egli lasciò il segno più profondo contribuendo a rompere definitivamente quel ristagno tradizionalista ottocentesco, dove la creazione vetraria stava da tempo arenata, limitata soprattutto dal vincolo dell’imitazione e dei continui revival di una produzione ormai fuori tempo. Instaurò quella effettiva collaborazione tra designer , quale egli era, e maestri vetrai in possesso delle grandi capacità tecnico-esecutive acquisite nell’Ottocento, divenendo il primo artista che si inserì e sviluppò, in senso moderno, le direttive basilari sulle quali ancora oggi cresce l’arte vetraria muranese.


L’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi del 1925, alla quale egli partecipò con tessuti, mobili, pannelli ricamati e vetri della “Cappellin, Venini e C.”, che gli valsero il Gran Prix della mostra, segnò anche lo scioglimento del sodalizio tra Paolo Venini e Giacomo Cappellin. All’apertura dell’evento i due imprenditori si presentarono assieme ma, alla fine della mostra, esistevano già due ditte, la “M.V.M. Cappellin e C.”, per la quale Cappellin mantenne come direttore artistico Vittorio Zecchin, e la “Vetri Soffiati Muranesi Venini e C.”, per la quale Venini chiamò Napoleone Martinuzzi prima e Carlo Scarpa dopo. Tanto era considerati stilisticamente importanti i vetri realizzati sotto la direzione di Zecchin, che la nuova ditta di Venini volle tenersi gran parte dei suoi


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