Cultura e psiche
Gli uomini sono dei piccoli motori che mantengono e modificano tramite il loro funzionamento le proprie componenti ed i propri meccanismi; la produzione continua di strumenti materiali e immateriali non è altro che cultura, ossia la continua ridefinizione delle mura in cui si vive e del pavimento dal quale si viene sorretti. In sostanza, definisce la griglia interpretativa all’interno della quale viene inserito qualsiasi oggetto, fisico o non, si presenti allo sguardo di una persona: nessuna attività conoscitiva che non sia già interpretativa è possibile, data l’inesistenza di un mondo oggettivo indipendente dall’osservatore [Geertz 1973]. Ne consegue che le scienze sociali, come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, e che dir si voglia la psichiatria, si possono definire scienze interpretative, in quanto, citando Popper, non è possibile confutare delle tesi riguardanti aspetti della realtà non misurabili scientificamente. “Noi comprendiamo fin dove i dati oggettivi dei moti espressivi, delle azioni, delle manifestazioni del linguaggio, delle autodescrizioni ci facilitano, più o meno, la comprensione del singolo caso. Possiamo sì trovare una relazione psichica evidentemente comprensibile staccata da ogni realtà concreta, però di fatto possiamo sostenere la realtà di questa relazione comprensibile solo nella misura in cui ci si offrono dati oggettivi. Quanto minori risultano essere questi dati oggettivi, tanto meno tassativamente suscitano la comprensione in un determinato senso e tanto più interpretiamo quanto meno comprendiamo” [Jaspers 1959, 329].
Ritualizzazione della devianza
La cultura e la psiche si continuano una nell’altra, cooperano in modo che i gruppi, stabilitisi in un territorio, codifichino delle azioni che verranno ripetute lungo le generazioni, modificate e rese attuali: strategie di sopravvivenza, tecniche, arti, riti; gli individui sono degli archivi di sapere, espressioni di un divenire individuale e collettivo, in grado di cambiare forma, adattandosi di volta in volta man mano che si susseguono gli eventi. “La cultura è dotata di dispositivi di produzione e riproduzione, di una sua inerzia e intenzione adattiva e conservativa” [Coppo 2003, 120], che le consentono di tramandarsi lungo le generazioni e di controllare i processi di trasformazione e le crisi dovute all’irrompere del disordine nel tessuto sociale. “Per arginare le minacce di disfacimento, le culture hanno dispositivi in grado di assimilare, neutralizzandolo, ciò che rischierebbe d’introdurre disordine nell’ordine: ne è un esempio la ritualizzazione della devianza ” [Coppo 2003, 121]. Esiste dunque una forte interconnessione fra disagio individuale e collettivo, le azioni di un gruppo si riflettono inevitabilmente su ciascun individuo e viceversa. Nell’incontro fra culture differenti, ognuna di esse funge da membrana selettiva che permette il passaggio solo di ciò che dell’alterità può essere assorbito e incorporato senza minarne la stabilità e la coerenza interna, quindi l’esistenza, tutto il resto viene espulso: in tutto il mondo lo stato di salute o di malattia di un individuo o di una società è determinato dalla presenza di equilibrio fra le varie componenti o, in caso contrario, dalla mancanza di equilibrio. Nel momento in cui subentra una dose eccessiva ed irreversibile di caos, “si danno improvvise rotture, lacerazioni, si generano crisi che mettono in difficoltà i normali sistemi di controllo e riparazione, e rischiano di rendere impossibile la continuità stessa di quella specifica cultura; oppure che scollegano l’individualità dalla rete di senso condiviso esponendola alla deriva o alla perdita”[Coppo 2003, 122] . Casi di rottura possono essere la “follia”, la criminalità, la violenza, fenomeni che richiedono un’immediata azione per il ripristino della stabilità.
Appunto attraverso una procedura mentale automatica, in Occidente, siamo soliti attribuire al discorso sul disagio psichico una dimensione individuale, orientando in modo concreto la ricerca delle cause, la scelta della cura e le modalità di trattamento. Franco Basaglia, in occasione di un convegno tenutosi nel 1979 nell’Istituto Sedes Sapientae di San Paolo, rispondendo all’intervento di un partecipante disse: ”Se pensassi che la follia è solo un prodotto sociale sarei ancora all’interno di una logica positivistica. Dire che la follia è un prodotto biologico oppure organico, un prodotto psicologico o sociale significa seguire la moda di un determinato momento. Io penso che la follia e tutte le malattie, siano espressione delle contraddizioni del nostro corpo, e dicendo corpo, dico corpo organico e sociale. La malattia, essendo una contraddizione che si verifica in un contesto sociale, non è solo un prodotto sociale, ma una interazione tra tutti i livelli di cui siamo composti: biologico, sociale, psicologico. Penso che la malattia sia, in generale, un prodotto storico-sociale, qualcosa che si verifica nella concreta società in cui viviamo, che ha una certa storia e ragion d’essere” [Basaglia 2000, 99-100].
Terapia: un saper fare situato
“Ogni cultura esprime un sistema di cure, molteplice e in divenire, che riassume in sé i diversi saper-fare terapeutici; questi rappresentano le risorse cui ricorrono i pazienti scegliendo tra quelle disponibili la più accessibile, la più adatta al tipo di problema, alla loro cultura e a quella del loro gruppo” [Coppo 2003, 123]. Ciascuno di questi saper-fare trova le proprie radici all’interno di una specifica rete di senso, all’interno di una cornice interpretativa che la legittima e che le fornisce i modelli di salute e malattia, le risorse per la cura e lo spazio di realtà in cui può agire, oltre alle possibilità intrinseche di estensione del proprio sapere e della propria efficacia. “Non si dà terapeutica culturalmente neutra proprio perché ogni atto terapeutico è inserito in un sistema di senso più ampio” [Coppo 2003, 124]. Paziente e terapeuta portano con sé i valori e i significati delle rispettive culture, gli ideali di salute e malattia, i modelli di interpretazione dei sintomi e le tecniche di cura. Quindi la scelta del paziente sarà determinata dalle aspettative che nutre rispetto alla pratica di quello specifico guaritore, ritenendola più o meno valida, e aprendo, nel caso questi appartengano a differenti cosmovisioni, nuovi orizzonti conoscitivi per entrambi. “Ad essere lavorato qui è l’intero registro delle relazioni tra umani, e tra umani e ambito immateriale (dalle regole morali alle abitudini cognitive) cui il gruppo si riferisce” [Coppo 2003, 126]. Da questo punto di vista è vero che “le malattie partecipano alla riproduzione delle culture non meno di quanto, inversamente, questa non partecipino alla costruzione delle prime” [Benedice 1999, 61]. I vari saper-fare terapeutici sono una valida finestra verso il tipo di relazioni e dinamiche sociali presenti in una società, e ogni società ha un proprio modo di codificare e tradurre lo stato di salute dei suoi membri.
Fra sociale e individuale
Un esempio efficace è la lunga sequenza di saluti che accompagna gli incontri in molte comunità africane, dove i legami tra le persone sono solidali e necessari. “Vi sono differenti modalità di saluto a seconda della situazione e del momento della giornata, e sono costituiti da una lunga serie di domande e risposte codificate: hai il cuore in pace? hai dormito bene? come stai? come stanno i tuoi familiari? e il villaggio? e la casa… Alla fine, una stretta di mano (tra uomini) e una formula di ringraziamento riassuntiva pronunciata con un tono di voce più intenso termina la sequenza dei saluti. Una tale sequenza non ha infatti lo scopo di comunicare come stanno le cose, assolve piuttosto alla funzione di accertare la capacità dell’altro di rispondere a tono, la sua disponibilità a giocare al gioco che tesse la rete della cultura, la potenza della sua presenza. Se qualcuno sfugge ai saluti, se non trova l’ordine codificato delle risposte, se la sua voce risulta indebolita, allora è il segnale di una possibile crisi, di un cedimento nel tessuto comunitario che può destare attenzione e allarme, o significare già il primo configurarsi di una possibile vocazione antisociale: che in alcuni casi richiama la stregoneria. In tal caso, se non sarà l’individuo stesso a mobilitarsi per trovare una soluzione, interverrà in suo soccorso la comunità di cui fa parte” [Coppo 2003, 143]. In queste popolazioni africane, viene data una importanza essenziale alla condizione di presenza dell’individuo, presenza come esserci nel mondo, come possibilità e capacità di mettere in gioco nel presente le proprie facoltà cognitive, emotive e di relazione. In ogni cultura, nell’incontro con l’altro, normalmente ci si interroga sui reciproci stati di salute, la differenza sta nel meccanismo culturalmente codificato che si attiva dopo tale incontro. Nelle società Occidentali la gran parte dei sistemi di cura si svolgono tra un “professionista della salute”, il paziente, e la cerchia più stretta di familiari e conoscenti di quest’ultimo, i quali assumeranno un ruolo comunque esterno alla terapia vera e propria, esclusiva dei primi due. “Il disturbo psichico assume un altro senso quando vanga osservato insieme all’apparato che la cultura in cui si manifesta ha espresso per ordinarlo. Se, per esempio, invece di pensare la depressione come una malattia dell’individuo, la consideriamo indissociabile dalla reazione culturale che l’accompagna (teorie e pratiche psicoanalitiche, psichiatriche, psicologiche), allora non ci appare più la malattia di un singolo, un fenomeno naturale, ma un complesso culturale che ingloba il disagio di un’individualità (espressione del disagio di un gruppo) e le procedure collettive che hanno l’obiettivo di riparare il disordine. Questi contenitori e rimedi si offrono al vissuto di disaffezione, ritiro ecc. come una forma già pronta che lo rende culturalmente compatibile, e quindi possibile oggetto di comunicazione e negoziazione. Le teorie e pratiche psichiatriche, psicologiche e psicoanalitiche appaiono indissociabili dalle caratteristiche dei loro oggetti, e fanno parte dispositivi culturali specifici di ritualizzazione di crisi che in questa cultura avvengono con questa intensità e sono messe in forma in questo modo. Altrove , analoghe esperienze e sentimenti umani trovano altri contenitori, suscitano altre risposte e possono avere altre manifestazioni e altri destini, purchè sempre compatibili con gli ambienti locali” [Coppo 2003, 163].
La cultura e i suoi sistemi di relazione rendono dunque possibile la presenza nel mondo degli individui e l’omeostasi individuale e collettiva. Il disagio che colpisce l’individuo riguarda sempre, anche le relazioni con gli altri, compito della cultura è riparare il tessuto lacerato sia a livello del singolo che del gruppo. Là dove è presente una condivisione della stessa cultura da parte di paziente e terapeuta, vi è concordanza anche per ciò che riguarda la terapia da intraprendere; nel momento in cui l’omogeneità fra sistemi di terapia e aspettative del gruppo viene a mancare, gli effetti possono essere di destabilizzazione e spaesamento, o in altri casi si attiva un processo di affiliazione ossia di progressivo scivolamento delle teorie del paziente verso quelle del terapeuta. In tal caso si apre la questione sull’effettiva validità ed efficacia della teoria e della pratica utilizzata.
Il simbolo è qualsiasi oggetto materiale o immateriale cui un gruppo di persone abbia attribuito una serie di significati che trascendono l’oggetto in sé. I simboli sono usati nelle varie culture all’interno di contesti che gli permettono di veicolare intenzioni, azioni codificate, contenuti e obiettivi specifici, “per essere efficace all’interno di un determinato progetto, necessita di un contesto speciale in cui viene messo in presenza di chi ne condivide il senso. Questo contesto è il rito, un insieme di regole e procedure codificate che si ripetono uguali ogni volta e costituiscono una sorta di dimensione parallela a quella ordinaria” [Coppo2003, 169]. Il rito è uno spazio-tempo particolare che abbassa il livello della coscienza ed isola dal presente, è una via diretta tramite la suggestione che consente l’ingresso in un mondo situato fra il sacro e il profano, governato dal simbolismo appunto. I miti e i riti sono dei meccanismi simbolici dei quali si avvale il saper-fare con lo scopo di ricostituire la presenza dei gruppi e dei suoi membri. Ogni terapeuta opera innanzitutto come rappresentante per quel settore della propria cultura: egli può essere ad esempio uno psichiatra come un guaritore o uno sciamano, e funge da punto d’incontro tra il male che porta con se il bisognoso e la via verso la cura, che può passare attraverso un rito, un sacrificio, una serie di colloqui, e che può necessitare l’utilizzo di oggetti come feticci, erbe, amuleti, o farmaci.