L'incontro con l'altro
L’incontro fra culture
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce come Human Mobile Population, i rifugiati, gli immigrati, i richiedenti asilo, i lavoratori in transito, i viaggiatori, i turisti, cioè tutti coloro che si spostano per diversi motivi da un paese all’altro. I dati dell’ OMS (2000) affermano che oltre un miliardo di individui è uscito dai propri confini nazionali, e di questi sono 135 milioni i migranti in cerca di lavoro; inevitabilmente, movimenti così massicci di persone verso nuovi territori comportano dei forti cambiamenti nelle esperienze che le stesse persone fanno di sé e dell’ambiente in cui vivono, viceversa anche l’ambiente ospitante dovrà mettersi in gioco sia da un punto di vista etico che politico per far fronte alle esigenze dei propri ospiti. Nel momento in cui un gruppo si installa in un nuovo luogo lo trasforma, e con la sua presenza nascono problemi connessi al riconoscimento delle identità specifiche dei gruppi, delle tradizioni e delle culture altre [Mantovani 2004]; il concetto di cultura come sistema poroso, aperto e in continuo scambio, consente di cogliere e valutare l’andamento di fenomeni sociali come il confronto, lo scontro, l’ibridazione.
Questioni politiche
Nei paesi del primo mondo le richieste di riconoscimento rivolte dai gruppi di altra cultura hanno incontrato politiche pubbliche molto differenziate. Nel Regno Unito e in Olanda, con una egno Unito e in Olanda, con una iculturalismo detto “a mosaico”, si è cercato di lasciare che ogni comunità “nuova” si sviluppasse separatamente dalle altre, in modo che ognuna di esse potesse mantenere la propria identità, le proprie tradizioni e il proprio tenore di vita come forma di rispetto e riconoscimento delle minoranze. Le autorità pubbliche francesi e tedesche sono state più intransigenti riconoscendo diritti alle persone ma non ai gruppi; la difficile questione del conflitto tra eguaglianza dei diritti e diversità delle tradizioni culturali, specie per quanto concerne i diritti delle donne, i diritti dei bambini, il matrimonio e l’educazione, mette alla prova la flessibilità di entrambe le culture nella capacità di negoziare diritti e doveri, e di distinguere cosa è tollerabile e cosa non lo è. Le teorie multiculturaliste tendono ad entrare in conflitto con le teorie democratiche ed egualitarie perché in molti casi le culture che rivendicano diritti speciali non riconoscono al proprio interno i diritti essenziali della persona umana [Mantovani 2003]. “Alcuni effetti del conflitto tra politica delle differenze e politica dell’eguaglianza si stanno manifestando da alcuni anni a danno dei diritti di libertà e di eguaglianza di soggetti come le donne e i bambini. Ad esempio il principio recentemente accolto nella legislazione degli Stati Uniti, di tenere conto delle tradizioni culturali nel valutare le ipotesi di reato ha dato luogo a sentenze sconcertanti [Benhabib 2002]. Una donna di origine giapponese che aveva ucciso i due figli e tentato il suicidio ha invocato come circostanza attenuante davanti a una corte penale californiana il fatto che quel comportamento era previsto dalla sua cultura quale forma di protesta per il tradimento di cui era vittima da parte del marito” [Mantovani 2004, 17]. La donna fu condannata ad una pena irrisoria: un anno di detenzione prima del processo.
Valori differenti
I valori di indipendenza, di libertà individuale, di emancipazione del singolo, di autorealizzazione, di democrazia e eguaglianza, tipici della cultura occidentale non trovano affinità in altre culture tradizionali. Un esempio delle differenze culturali importanti lo fornisce Shweder attraverso una ricerca sulla vita domestica delle donne indù della città vecchia di Bhubaneswar. Queste vivono solitamente in famiglie allargate composte da fratelli adulti, dai loro genitori, dalle loro mogli, dai figli e dalle sorelle non sposate, che possono arrivare fino ad una ventina di membri. La vita della donna indù è nettamente distinta in due parti: nella prima ella vive nella casa del padre, nella seconda passa nella casa della madre del marito, ed è sottoposta all’autorità della suocera. Mentre nella prima casa ella non ha compiti da svolgere, nella casa in cui entra come sposa ha doveri molto pressanti, generare figli per garantire la continuità della famiglia, cucinare e servire i pasti a tutti i membri in pasti separati a seconda dei ranghi, svolgere i compiti domestici della casa ed essere sensibile ai bisogni dei membri della famiglia acquisita che, gradualmente, l’accetterà al suo interno. Lentamente acquisterà rango lasciando gli oneri più gravosi alle nuore più giovani; il lungo processo di formazione della donna indù termina col matrimonio del primo figlio maschio e col conseguente ingresso della nuova nuora, alla quale passano, tra gli altri, i doveri di riproduzione. Raggiunta finalmente l’ambita posizione di suocera, insegnerà alla nuora i suoi doveri, e rappresenterà la famiglia nelle relazioni con gli ospiti umani e soprattutto con gli dei, i cui riti potrà celebrare in uno speciale locale della casa e nel tempio, che sarà libera di frequentare essendo esente dall’impurità rituale connessa all’attività sessuale [Mantovani 2004]. La vita di mezza età, per le donne indù di Bhubanswar, coincide dunque con un periodo di grande prestigio sociale, e soprattutto di grande riposo e spiritualità; lo stesso periodo di vita nella società occidentale, vittima dell’esaltazione a tutti i costi della bellezza fisica, della forma con la quale si appare agli occhi dell’altro, ai danni della spiritualità e dell’equilibrio tra essere ed apparire, ha significato di decadenza fisica, e di avvicinamento alla morte, della quale si ha tremenda paura. Eppure alcuni movimenti femministi, in nome della parità fra i sessi, considerano comunque la condizione della donna indù nella prima fase di vita in casa del marito, una forma di sottomissione, al resto della famiglia, omettendo tuttavia alcune considerazioni necessarie. “In India abbiamo avuto un capo del governo donna, Indira Ghandi, abbiamo matriarche potenti e suocere onnipotenti. Come può una femminista americana considerare inaccettabili le nostre tradizioni, sembra chiedersi Parekh ? Solo perché non si conformano a quelle americane ?” [Mantovani 2004, 129]. Sarebbe questa una grave forma di intolleranza verso il diritto delle persone di vivere la propria cultura. La differenza si riscontra infatti su un piano puramente qualitativo: i valori condivisi dalle donne indù sono il senso del dovere, la castità, l’autodisciplina, il differimento della gratificazione, il perfezionamento di sé e la modestia, valori sensibilmente differenti rispetto a quelli in vige fra le donne in occidente. In ogni questione riguardante la libertà di scelta, è innanzi tutto necessario interrogare l’interessato sui significati e le motivazioni che l’hanno spinto a operare tale scelta, in modo da comprendere più a fondo la vera natura del problema e le sue reali implicazioni a livello sociale e individuale. Qualsiasi intervento che miri all’identificazione di valori di giustizia universali, o di un codice morale unico per tutti i popoli della Terra è destinato a fallire.
Cultura: uno spazio di frontiera
La cultura non è uno spazio chiuso, ma piuttosto una frontiera, uno spazio di scambio, di ri-conoscimento di se stessi e di conoscenza dell’altro, un luogo in cui le generalizzazioni si rivelano inutili e lasciano terreno alla valorizzazione delle differenze e all’attenzione per le varie specificità, anche all’interno della stessa cultura. Sorprese da una giornata d’estate, in cui il sole con i suoi raggi, impone forti contrasti fra i colori, le pupille si fanno piccole, per contrastare tanta luminosità, così l’osservatore che vuole conoscere una cultura, si accorge che la presenza di tante sfumature, induce uno sguardo più attento ai particolari, allontanando sempre di più i punti di arrivo dalla categoria di partenza. Parlando di me, ad esempio, potrei definirmi come: “un ragazzo italiano, residente in una cittadina del Nord-Est”; sento che non basta, vediamo:”ragazzo residente in una cittadina del Nord-Est, iscritto alla facoltà di psicologia dell’ateneo di Padova, figlio di genitori siciliani emigrati al Nord”; potrei, e dovrei andare avanti così, sempre più a fondo, dal generale al particolare fino ad arrivare alla mia unicità, come una Matrioska al suo interno custodisce sempre qualcosa di più piccolo.
L’importanza del confronto: conoscere-conoscersi
Il confronto con altre culture permette di svelare i limiti della propria, le incongruenze e le contraddizioni, gli aspetti positivi e quelli che possono essere migliorati. Il paper “Thinking through cultures” di Shweder e i racconti, i punti di vista proposti ne “L’elefante invisibile” hanno stimolano una riflessione/confronto riguardo a due pratiche di origini occidentale una ed orientale l’altra. Si tratta dell’eutanasia, legalizzata in alcuni paesi occidentali, e del Sutee induista, del quale si riscontra l’ultimo caso nel1987. Alivello prettamente formale ciò che accade è molto simile: una persona sceglie di darsi essa stessa la morte (in realtà questa è già una nostra interpretazione in quanto nella credenza indù esiste solo la morte del corpo, non dell’anima), e tale scelta viene accettata dalla comunità di appartenenza; la differenza si rivela in realtà nei significati e nelle credenze che sono antecedenti e precursori di tale scelta. Nel mondo indù, la vedovanza è considerata come una punizione per delle trasgressioni operate nelle vite passate, e l’espiazione di tali colpe prevede che la donna si getti fra le fiamme crematorie del marito, in modo che le anime dei due possano ricongiungersi per poi reincarnarsi e così per l’eternità. La vedova indù decide di prestarsi alla pratica del sutee perché la religione in cui crede, le sue tradizioni, le hanno insegnato a vivere la morte come punto di passaggio fra diversi tipi di esistenza, una carnale ed una spirituale; per questa ragione esse “non hanno paura della morte”, e considerano giusto e inevitabile che l’anima della moglie segua quella del marito; inoltre si apprende dai resoconti dei testimoni, come gli attimi immediatamente precedenti al lancio fra le braccia del rogo siano vissuti dalle mogli in un profondo stato di immersione nella cura della propria bellezza, in una mano lo specchio nell’altra il pettine, completamente noncuranti dell’atroce dolore che stanno accingendosi a provare, senza timori. Forse è proprio l’atrocità, lo straziante dolore che ci prefigura una morte di questo tipo a far inorridire i nostri animi, perché la nostra cultura ci ha insegnato ad avere paura oltre che della morte, del dolore fisico, a difenderci e fuggire da esso. Con l’eutanasia il mondo occidentale (la parte in cui è tollerata) è riuscito a rendere razionale la morte, una forma particolare di morte chiamata altrimenti suicidio, la quale viene umanamente e moralmente concessa alle persone che, sofferenti, respiro dopo respiro vanno lentamente spegnendosi. Per risparmiare al malato ulteriori agonie gli si concede un ultimo dono dalla vita: una buona morte. I significati che in Occidente si attribuiscono a concetti quali vita e libertà, il concetto di razionalità e i valori condivisi permettono di accettare che una persona decida di fuggire dai demoni della propria sofferenza rifugiandosi nella morte; per quale motivo allora non accettare che secondo un’altra cultura, un altro sistema di simboli e valori, un’altra forma di razionalità, le anime racchiuse nei corpi delle vedove indù siano libere di ricongiungersi con le anime dei defunti mariti? Mettere alla prova il proprio sistema di credenze, valutarne la capacità di flettersi nell’apprendere quanto “altro” si distenda al di là dei confini del proprio sapere e del proprio “saper conoscere”; scoprire quanto esso sia in grado di ridisegnare la propria sagoma anche oltre i mari e gli oceani porta ad essere più consapevoli della propria cultura, di un’altra cultura, della centrale rilevanza delle differenze che, più delle uguaglianze, aiutano i popoli a conoscersi meglio. “E, proprio come si può imparare l’amore universale attraverso l’amore per i propri vicini, si può accedere allo spirito universale solo attraverso la conoscenza di una cultura particolare: quel che è vero per il mondo affettivo lo è anche per il mondo cognitivo: probabilmente i due mondi non sono così distanti fra loro. La conoscenza è alla base dell’evoluzione, “il confronto leale tra diversità può produrre una dilatazione progressiva della cornice concettuale, ma anche politica e legislativa, nella quale noi e gli altri, ci troviamo a evolvere insieme. Questa cornice dovrebbe comprendere le varie diversità, lasciandole sussistere come tali” [Coppo 2003, 77].
Il rispetto dell’alterità
Il regno della cultura è interamente distribuito lungo le frontiere, e questa viene attraversata ogni volta che ci troviamo di fronte a un altro di cui percepiamo e rispettiamo l’alterità [Mantovani 2004]. Rispettare l’alterità significa avere la capacità di comprendere anche ciò che non si può accettare, “capire inteso nel senso di comprendere, percepire e intuire, deve essere distinto dal capire come concordanza di opinioni, unione di sentimenti o fedeltà comune a determinati valori”[Mantovani 2004, 147]. Il dialogo rispettoso, motivato da un sincero interesse per la scoperta dell’altro, lontano dal pregiudizio di una superiorità della propria cultura rispetto all’altra, è lo strumento che permette di giungere ad un confronto e ad uno scambio fruttuosi.