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Recensione p.francesco listri

L'alta pittura di Silvia fra lampi e delfini Silvia Serafini è una pittrice di grande talento, il cui ricco, e ancora giovane passato gremito di rigorosi apprendistati di riflessione e di mestiere, bene spiega gli eccellenti approdi della sua pittura. Maremmana ma da sempre fiorentina, seguì giovanissima la scuola per l'arte e il restauro, avviandosi alla pratica delle tecniche antiche e dell'incisione e alla non semplice arte della copia mai interrotta e che oggi esercita, professionalmente, con internazionale rinomanza. Poi l'Accademia la impegnò per diversi anni alla scuola di nudo, maestro il solitario e raffinatissimo Piero Vignozzi. Così dalle tele rivisitate di uno Zuccarelli, di un Arcimboldo o di un Bimbi (soprattutto il sontuoso Seicento dei quadri di genere le insegnò ogni segreto), passò a riflettere su pittori più suoi, incantata dalla Deposizione del Rosso (mistero della razionalità che si fa vortice) e dai girasoli di Van Gogh (passione e fisicità del colore) ma anche da un artista di somma luminosità, Gustave Moreau (un'originale ripresa in una sua "Leda col cigno") che traversa l'Ottocento fra iridescenze e simbolismi di veggente creatore di angeli, chimere, sfingi dipinte in accesissimi crepuscoli. Altre predilezioni, più vicine a noi, nutrono il catalogo mentale di questa pittrice, eclettico ma ragionato: la gridata figuralità dell'Espressionismo; l'urgenza futurista di rappresentare la velocità; l'appartato primato incisorio del fiorentino Piero Parigi, fra bianchi e neri balenanti. L'alto trovarobato della Serafini corre così, - sempre curioso, mai sperimentale fine a se stesso,- dalle eleganze e perizie pittoriche seicentesche fino alle soglie della stagione astratta, finora non tentata, ma avvertita nella sua modernità. Poi ha preso vigore l'originalità del suo talento, felicemente ancipite: razionale ed emozionale, guidato dal gesto pittorico inciso e appassionato, ma insieme sorvegliato dal compasso armonico del ragionato rigore . Dentro ai suoi più felici e recenti esiti questa doppia spinta assume un unico, incantevole, libero fraseggio. Seguiamone il lungo itinerario. Studiando il nudo partì e sostò dipingendo la figura, mentre provava i "suoi" colori in acquerelli incantevoli, tecnica poi sempre amata. L'attraeva la forza svelatrice della luce ("Luci dall'ombra" chiamò una sua prima mostra). Ma alla laica dignità della figura umana presto sostituì - bisognosa che ad ogni forma aderisse un soggetto opportuno - un altro archetipo vivente che era anche uno stemma

figurativo: il cavallo. La lunga stagione dei suoi cavalli rosseggianti è il trionfo della velocità rappresentata; è l'energia vitale scaricata in forme sinuosamente vorticose, in grovigli energici e insieme decorativi, nel ritmo e nella musica di una commossa grammatica di linea e colori. E accanto ai cavalli spuntarono - per la medesima forza di arabeschi in movimento - i delfini.


Talvolta la biografia influenza gli sviluppi dell'arte. Trasferendo il suo studio nel cuore dell'oltrarno, in San Frediano, Silvia ha riscoperto la città murata: la monotona, elegante compattezza delle quinte, la magica scandita segretezza delle finestre; le aeree linee dei cornicioni a ripartire (Firenze agorafobica e tutta verticale) l'avaro cielo. Una nuova mostra ("Florentia") ha sancito la conquista vittoriosa dell'inedita stagione dei "frammenti architettonici". I frammenti architettonici appaiono vagheggiati e riproposti come stenografica sintesi della suprema araldica non solo rinascimentale fiorentina. L'impeto pittorico (della linea) vince la rifinitura, l'improvviso (squillanti fregi­sfregi dei colori) annulla la superflua precisione. Per forza di sintesi, più queste rappresentazioni si allontanano dalla verosimiglianza, tanto più appaiono vere. In alcuni di questi "frammenti" si specchia e si raccoglie l'accento più riposto di questa pittura: che è, in breve, una sintesi fra il moderno sentimento del frammento, cosa tutta novecentesca e, all'opposto, un magico sigillo di compiutezza a stringere quello che i classici chiamarono "la figura del mondo". Siamo ora al cuore della pittura serafiniana. Quel suo bisogno di costruire e subito di sommuovere, di dar forza e insieme eleganza magica di movimento, di forzare al diapason linea e colori, trovano dentro i "frammenti" la più sfolgorante stenografia, incisa e leggera,urgente eppur meditata. Riproducendo brani e spicchi di architetture vetuste - le facciate di San Lorenzo, di Santo Spirito, il Battistero -, l'artista le incarcera e insieme le esalta in scorci impropri (cinema, anche), le disassa come se un terremoto emozionale le riproponesse nuove, precarie, ventose, intrise di sanguinante colore. Sulla architettura dunque, la più stabile delle arti, la pittrice esercita la sfida del movimento. Un recente dipinto che "immagina" un delfino guizzante su uno scorcio della facciata di Santo Spirito, sigilla lo stemma felice di un'arte in cui la più segreta toscanità si sposa alle più moderne istanze della pittura contemporanea. Ma il discorso dei contenuti ha qui senso perché si fa, è, il discorso stesso della pittura: cioè linea e colore. Nel vortice del suo arabescare, la linea serafiniana corre

quasi sempre fatalmente all'archetipo del cerchio - rosoni, sole, forme tondeggianti - che è motivo gesto di danza, ma anche conclusa firma razionale: in sostanza, fantasma della fantasia. Ma a questa grammatica e griglia compositiva della linea, concorre decisivo il colorismo accesso, fremente e temerario che distingue la pittura di Silvia. Esso si posa - o si avventa - ora sulla carta dell'acquerello, ora sulla tela della tempera e dell'olio, talvolta perfino nell'affresco, quasi fosse l'accento irrazionale più suo, a sua volta generatore di forme singolari e impreviste. Colori solari perlopiù: rosso, giallo, il bianco stesso del non-dipinto.


Entra qui un'altra sperimentata conquista di questa pittura: l'osservazione e la restituzione di atmosfere metereologiche: temporali, piogge, tramonti.Un tempo Silvia fotografava in natura l'improvviso scoccare dei lampi per rapirne poi sulla tela la travolgente e abbagliante istantaneità. Nascono ora bellissimi paesaggi - singolare inedito paesaggismo nel panorama pittorico di oggi -, quasi astratti evocati da strisce sonore di colori forti orizzontalmente giustapposte di inaudita suggestione; ora situati in campi assolati, ora in trasparenze notturne. Salgono alla memoria oltre le più ovvie, luminose tempeste di un Turner o di un Costable anche, scendendo in territori non ignoti alla sapienza pittorica di Silvia, certi paesaggi nuvolosi e scossi di un Jan van Bloemen o certi notturni temporali di un Ducros. Ma, nella Serafini, vibrano anche certe prefigurazione dell'emozione astrattista. Dipinge veloce, dopo lunga gestazione mentale, Silvia Serafini. Ama variare i suoi supporti seguendo l'estro ben esercitato sulle più diverse tecniche (il suo forte sperimentalismo è appunto tecnico, mai escogitatorio). Ama la carta liscia da incisione, che consente rapida ai colori liquidi e alle chine; sulle tele predispone, con antica perizia della tradizione, gesso e colla; pratica ove occorra,tempere e inchiostri; gioca a tutto campo, dal tromp-l'oeil all'affresco. Quando obbedisce alla professione, continua il lavoro di copia, elegante vezzo del mestiere, che le dà la riposante sicurezza di una ricca committenza. Poi torna alla pittura sua vera. Dal buio del tempo la soccorrono silenziosi i fantasmi di Artemisia, di suor Anguissola, di Fede Galizia. La lunga teoria della grande pittura al femminile, da Silvia onorata e insieme felicemente disdetta per correre una sua originale strada che è facile dire sarà ricca ancora di eccellenti risultati. Pier Francesco Listri