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Barriere architettoniche: buone leggi ma inapplicate

BARRIERE ARCHITETTONICHE: BUONE LEGGI MA INAPPLICATE*


“…saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro…” Ivano Fossati 1983


Ognuno di noi, in una qualche misura, incontra ostacoli, quotidianamente. Possiamo trovarci inabili in modo temporaneo o permanente ad eseguire movimenti od operazioni che vogliamo o dobbiamo compiere. Gran parte dei progressi compiuti dall’uomo nella storia delle sue civiltà è scaturita proprio dalla volontà di superare i limiti dati dalla sua struttura fisica. Gli sforzi, le intelligenze e le cooperazioni nei momenti migliori sono stati finalizzati a tale scopo.


La barriera architettonica, all’interno di un simile ragionamento, appare come una contraddizione. La sua essenza non è data dall’essere barriera quanto dall’essere architettonica: prodotta dall’uomo.


Gli ultimi decenni del secolo scorso hanno visto nascere nuove consapevolezze e norme di spessore anche notevole (per quanto possa definirsi buona una norma che non riesce a farsi applicare integralmente). Sulla scia delle leggi e dei regolamenti nazionali (dal DPR 384 del 78 sui trasporti al Decreto sull’accessibilità dei luoghi della cultura del 28 marzo scorso) anche le Regioni [1] si sono dotate di strumenti che dovevano impedire si continuasse a costruire creando o non eliminando ostacoli per chi, permanentemente o temporaneamente, si trova ad avere difficoltà motorie o di percezione; che dovevano servire ad individuare ed eliminare le barriere esistenti, a cominciare da edifici e spazi pubblici. Di fatto abbiamo visto alcune buone applicazioni (vistose proprio perchè rare), ma barriere se ne realizzano ancora troppe e non sono stati certo resi accessibili gli spazi ed i servizi aperti al pubblico.


Come capita spesso la norma, ironia della sorte, diventa ostacolo burocratico, da rispettare formalmente, ma non indicazione progettuale e costruttiva. Mentre cresce lentamente la consapevolezza culturale che la costruzione di un ambiente costruito accessibile a tutti, senza pericoli e confortevole, sia necessario e fattibile. L’illusione che si tratti di problematiche che riguardano solo una minoranza spinge a privilegiare altri interessi e motivazioni (siano essi economici, estetici, burocratici).


La risposta valida resta quella che va sotto la definizione di “progettazione per un utenza ampliata”, che superi la cultura attuale del progettare per la “norma, lo standard” (maledetto Le Corbusier!) e considera eccezione la risposta alle esigenze di “utenze deboli” – nascono così i bagni per gli handicappati, invece che bagni accessibili a tutti!


Bisogna invece costruire spazi che siano fruibili da chiunque, dove chiunque possa vivere in maniera “indipendente”, e per questo devono coinvolgersi tecnici e utenti già nell’individuazione delle esigenze e nella ricerca delle soluzioni.


La responsabilità è di progettisti, costruttori, funzionari e amministratori. Ma riguarda anche i comportamenti di tutti, a cominciare dal proverbiale posteggio dell’auto sul marciapiede.


Benigno Moi, architetto


* pubblicato su L'Altra Sardegna , periodico mensile della CGIL Sardegna, giugno 2008

[1] In Sardegna la L.R. 32/1991