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Mostra "fatti ad arte"
16/03/2008 Bagheria Un diffuso e radicato pregiudizio è alla base della fittizia distinzione fra le arti cosiddette
“maggiori” e quelle ritenute, a torto, solamente “minori”.
Generato dalla volontà degli artisti romantici di emanciparsi dal ruolo di meri cortgiani-esecutori
per divenire del tutto autonomi e finalmente liberi da obblighi di corte, questo pregiudizio si è
andato vieppiù consolidando col progressivo rafforzarsi di quella “sacralità dello status artistico
impostasi in maniera esponenziale negli ultimi due secoli.
L’incedere dell’ipertrofizzazione dell’ego artistico contemporaneo ha infatti coinciso col parallelo
ridimensionamento di quelle eccelse doti progettuali e manuali che avevano contraddistinto gli
artisti del passato, in quanto intese come probanti d’un ormai inaccettabile ruolo asservito ed
eterodiretto della loro ideatività. Le tante esperienze esemplificative e paradigmatiche dei secoli
precedenti (come quella di metallurgo e cesellatore di monete del Pisanello, di progettista di
scenografie e costumi di Leonardo, di ideatore di argenterie e apparati vari di Giulio Romano, di
raffinatissimo orafo del Cellini, di realizzatore di placche di vetro dipinte per monetieri del
napoletano Luca Giordano o di accuratissimo scultore e incisore di avori, coralli e madreperle del
trapanese Tipa, tanto per citarne alcune) hanno dunque finito con l’essere considerate come
minoritarie e meno significative ai fini degli sviluppi delle arti contemporanee e soprattutto del
ruolo dell’artista nella più stretta attualità.
Fatte salve le teorizzazioni e le coerenti applicazioni di Morris, dei futuristi e del Bauhaus, e
l’impareggiabile giocosità realizzativa di Munari, gli ultimi centocinquant’anni hanno per tanto
visto il trionfare d’una gestualità artistica sempre meno vincolata ad esigenze concrete e sempre più
finalizzata ad un distacco da qualsivoglia esito pratico delle opere d’arte, in funzione di quella
autoreferenzialità della figura e dell’operato dell’artista, divenuta una fin troppo stabile condicio
nella contemporaneità.
Con questa piccola, ma qualitativa mostra (cui partecipano venti artisti dediti a discipline, tecniche e
linguaggi fra loro ben distinti e separati) si è evidentemente inteso andare controtendenza,
dimostrando non solo la possibilità, ma soprattutto la necessità di ricomporre armonicamente
l’ideatività estetica e la fabrilità artigianale, in un’ottica di completa restituzione di identità e
naturalezza tanto alla fase progettuale quanto a quella gestuale.
Nessun intento di perseguire la semplice estetizzazione della funzione o di promuovere la
funzionalizzazione dell’estetica, bensì un fermo desiderio di dimostrare come l’arte non viva
solamente in territori “iperuranici”, accessibili a pochi eletti, ma come possa (e debba) estrinsecarsi
in tutta la sua pienezza, anche ironica e disincantata, in ambiti decisamente più terreni e praticabili.
E tutto ciò al di fuori di qualsivoglia smania ostentatamente intellettualistica, ma piuttosto puntando
a recuperare quegli aspetti ludici che dovrebbero essere sempre insiti e presenti nel pensare e
nell’agire degli artisti.
Una necessaria e salutare desacralizzazione delle arti visive, dunque, che non è l’esclusiva
espressione d’una iconoclastica volontà di ridimensionamento della figura dell’artista, ma che
viceversa mira al pieno recupero di quella completa “tekhne” che dovrebbe costituire il vero nodo
fondante d’ogni compiuto fare artistico.
Salvo Ferlito
“maggiori” e quelle ritenute, a torto, solamente “minori”.
Generato dalla volontà degli artisti romantici di emanciparsi dal ruolo di meri cortgiani-esecutori
per divenire del tutto autonomi e finalmente liberi da obblighi di corte, questo pregiudizio si è
andato vieppiù consolidando col progressivo rafforzarsi di quella “sacralità dello status artistico
impostasi in maniera esponenziale negli ultimi due secoli.
L’incedere dell’ipertrofizzazione dell’ego artistico contemporaneo ha infatti coinciso col parallelo
ridimensionamento di quelle eccelse doti progettuali e manuali che avevano contraddistinto gli
artisti del passato, in quanto intese come probanti d’un ormai inaccettabile ruolo asservito ed
eterodiretto della loro ideatività. Le tante esperienze esemplificative e paradigmatiche dei secoli
precedenti (come quella di metallurgo e cesellatore di monete del Pisanello, di progettista di
scenografie e costumi di Leonardo, di ideatore di argenterie e apparati vari di Giulio Romano, di
raffinatissimo orafo del Cellini, di realizzatore di placche di vetro dipinte per monetieri del
napoletano Luca Giordano o di accuratissimo scultore e incisore di avori, coralli e madreperle del
trapanese Tipa, tanto per citarne alcune) hanno dunque finito con l’essere considerate come
minoritarie e meno significative ai fini degli sviluppi delle arti contemporanee e soprattutto del
ruolo dell’artista nella più stretta attualità.
Fatte salve le teorizzazioni e le coerenti applicazioni di Morris, dei futuristi e del Bauhaus, e
l’impareggiabile giocosità realizzativa di Munari, gli ultimi centocinquant’anni hanno per tanto
visto il trionfare d’una gestualità artistica sempre meno vincolata ad esigenze concrete e sempre più
finalizzata ad un distacco da qualsivoglia esito pratico delle opere d’arte, in funzione di quella
autoreferenzialità della figura e dell’operato dell’artista, divenuta una fin troppo stabile condicio
nella contemporaneità.
Con questa piccola, ma qualitativa mostra (cui partecipano venti artisti dediti a discipline, tecniche e
linguaggi fra loro ben distinti e separati) si è evidentemente inteso andare controtendenza,
dimostrando non solo la possibilità, ma soprattutto la necessità di ricomporre armonicamente
l’ideatività estetica e la fabrilità artigianale, in un’ottica di completa restituzione di identità e
naturalezza tanto alla fase progettuale quanto a quella gestuale.
Nessun intento di perseguire la semplice estetizzazione della funzione o di promuovere la
funzionalizzazione dell’estetica, bensì un fermo desiderio di dimostrare come l’arte non viva
solamente in territori “iperuranici”, accessibili a pochi eletti, ma come possa (e debba) estrinsecarsi
in tutta la sua pienezza, anche ironica e disincantata, in ambiti decisamente più terreni e praticabili.
E tutto ciò al di fuori di qualsivoglia smania ostentatamente intellettualistica, ma piuttosto puntando
a recuperare quegli aspetti ludici che dovrebbero essere sempre insiti e presenti nel pensare e
nell’agire degli artisti.
Una necessaria e salutare desacralizzazione delle arti visive, dunque, che non è l’esclusiva
espressione d’una iconoclastica volontà di ridimensionamento della figura dell’artista, ma che
viceversa mira al pieno recupero di quella completa “tekhne” che dovrebbe costituire il vero nodo
fondante d’ogni compiuto fare artistico.
Salvo Ferlito
Indirizzo: CORSO BUTERA 181 Bagheria
Data Fine: 30/04/2008
Frequenza evento: