Ecco l'articolo uscito stamani su La Stampa .
“Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta”. Così cantava Francesco Guccini nella Canzone delle osterie di fuori porta . Era il 1974 e, come spesso accade ai cantautori (ispirati), sapeva che un giorno gli avrebbero dato del profetico. L’osteria stessa ha mutato drasticamente pelle. E se per Guccini gli imperdonabili erano quelli che inseguivano la carriera, morendo di “una morte un po’ peggiore”, ora anche il luogo adibito al convivio proletario non pare in ottima salute. La guida Osterie d’Italia di Slowfood è da anni un punto di riferimento, nonché cartina al tornasole di uno spaccato d’Italia. Ieri l’osteria era una sorta di alcova intellettuale, di avanguardia culturale ("Ricordo quelle discussioni piene di passione/ di quando facevamo tardi dentro a un'osteria. L'amore, l'arte, la coscienza/ la rivoluzione/ sicuri di trovar la forza/ per andare via": così riassumeva Giorgio Gaber ne L'ingranaggio , 1972). L'osteria era un’aula senza sovrastrutture barbose. Il naturale prolungamento della discussione cominciata all’Università o al bar, con tanto di particolari (oggi stereotipati) come la tovaglina a quadri e la cucina della nonna. Prima del cibo veniva la bevuta, prima del menu c’era il desiderio di stare assieme. La tavola non era protagonista, bensì collante. Al punto che, più della qualità (che comunque c’era), contava la quantità. L’osteria è ancora per molti il regno della grande abbuffata: del mangia tanto e spendi poco. Qualcosa che, nel primo Vinicio Capossela, diventava il luogo di conquista per “il re della cantina, vampiro nella vigna e sottrattor nella cucina”. Di fatto questi luoghi esistono sempre meno. Un po’ perché le nonne sono evaporate (e i figli quasi mai all’altezza), un po’ perché la scansione della serata è cambiata ( happy hour ). Un po’ perché l’aggregazione ha nel frattempo subito slittamenti vigorosi. La guida Slowfood vorrebbe essere il catalogo degli ultimi resistenti, con tanto di (genetica) collocazione a sinistra, ma gli stessi luoghi recensiti hanno ambizioni simbionti. Da una parte l’adesione al territorio, la deificazione del fagiolo zolfino e (quando si ha fortuna) la pasta fatta in casa; dall’altra un arredamento modaiolo, un servizio più ammiccante e un prezzo medio che è assai poco proletario. E così l’osteria slitta verso altro: verso il salotto radical-chic. Mutamenti antropologici, certo. A cui qualcuno si oppone. Guide concorrenti fanno le pulci alla contraddittorietà del concetto di “osteria”. Il Mangiarozzo (ex Gambero Rozzo) si vanta come la guida delle “vere” trattorie, dei luoghi di una volta, delle osterie senza puzza sotto al naso, buone per l’appassionato come per il camionista. E La Gola in Tasca non perde occasione per sottolineare quello che ritiene il latente snobismo di Slowfood. Resta però la domanda fondante: esistono ancora le osterie? Sì, se hai la voglia di cercare. No, se l’istantanea di Guccini è nel frattempo assurta a disciplinare d’origine controllata. Eppure l’osteria è da sempre luogo fecondo di suggestioni, da quelle popolane dello stornello romano a quelle colte dei romanzi. I pasti di Pepe Carvalho, il detective-gourmet di Manuel Vázquez Montalbán, erano più rilevanti della trama: l’identità dell’assassino era qualcosa che andava svelata, non prima però di sapere quale fosse l’osteria catalana preferita da Pepe. E così le cene (innaffiate dal Lagavulin) di Fabio Montale, l’antieroe sconfitto dalla vita nella trilogia di Jean-Claude Izzo, che solo nel momento del ristoro (rigorosamente tra mura amiche) trovava tregua esistenziale. Passa il tempo e tutto cambia. Anche l’osteria: da ritrovo festoso (e chiassoso) a luogo per pochi eletti. Per iniziati. Appassionati col salvadanaio sufficientemente pingue. Suonano implacabili, nonché fatalmente testamentarie, i versi di Alda Merini: “A me piacciono gli anfratti bui/ delle osterie dormienti/ dove la gente culmina nell’eccesso del canto/ a me piacciono le cose bestemmiate e leggere/ e i calici di vino profondi/ dove la mente esulta/ livello di magico pensiero”. La poetessa amava “l’acre vapore del vino indenne”, “l’ubriacatura del genio”. “l’indagine sorda delle scorrevolezze di vite”. Amava, come Guccini. “le osterie che parlano il linguaggio sottile della lingua di Bacco”. Chissà in quanti sono rimasti come loro. |