Le emozioni degli operatori nel lavoro con donne vittime di violenza.
La violenza sulle donne è un tema tristemente attuale: ogni giorno ci sono casi di femminicidio; trasmissioni, dibattiti in TV, films e documentari su questo tema; negli approfondimenti si avvicendano esperti che spiegano il fenomeno dal punto di vista sociale, psicologico, criminologico, ecc. Ma raramente si parla delle emozioni provate dagli operatori che lavorano con le donne che subiscono violenza.
Da oltre 10 anni lavoro con donne e minori vittime di violenza e maltrattamento. In particolare, collaboro con una casa-rifugio per donne italiane e straniere e coordino un centro di ascolto per donne che subiscono violenza.
Nella mia esperienza, gli operatori entrano in contatto con queste persone a vari livelli e rispetto a diverse professionalità (operatrici telefoniche, psicologhe, consulenti legali, educatrici, assistenti sociali ecc.). Questo contatto, pur avendo caratteristiche diverse, li espone, nella relazione, alla sofferenza e all’impotenza che spesso accompagnano le vittime di violenza e i loro familiari protettivi.
Per lavorare efficacemente con queste donne è necessario riconoscere le proprie emozioni, lasciarsi attraversare dall’inquietudine, dal dubbio, tener conto delle ambivalenze e non censurarle, aver cura dei propri sentimenti, mettendo in atto la capacità di elaborarli ed utilizzare strategicamente il proprio sentire come fonte di conoscenza, come risorsa.
Sono molti i fattori che influenzano le emozioni che porteremo nella relazione di aiuto con queste donne e la loro intensità.
Per esempio, quello che proviamo in queste situazioni sarà condizionato dalla nostra storia personale, dal contesto di vita attuale e dal senso di identità (il nostro genere, l’immagine corporea, la personalità, lo stile difensivo, i bisogni psicologici, i valori morali e spirituali, i nostri traumi ecc.).
Altri elementi che influenzeranno le nostre emozioni, possono essere come reagiamo rispetto allo stile interpersonale di queste donne, al loro aspetto, ai loro racconti; dal nostro modo di gestire l’impatto del materiale traumatico, ad esempio le reazioni che ci suscitano i sintomi della donna, quali paralisi, dissociazione, pensieri e memorie intrusive, ansia, rabbia, desideri di suicidio, depressione, impotenza, sfiducia, rivittimizzazione ecc. Molta importanza hanno anche l’identità professionale e le teorie cui facciamo riferimento; le motivazioni che stanno alla base della scelta di una professione di aiuto e i bisogni psicologici che queste motivazioni rappresentano; le nostre conoscenze rispetto al trauma.
Tutto questo costruirà e si rifletterà nelle reazioni emotive, ideative e fisiche che avremo verso la donna, verso il suo materiale clinico, il suo transfert e le sue riattualizzazioni del trauma. Inoltre sarà alla base delle nostre difese consce e inconsce dalle emozioni, dai conflitti intrapsichici e dalle associazioni che ella ci susciterà. Inoltre, il contatto emotivo con le persone e le loro esperienze, sollecita il nostro senso di vulnerabilità ed impotenza, sentimenti di orrore, paura, diffidenza e vergogna. Il lavoro sul trauma aggredisce gli schemi di riferimento su noi stessi e sul mondo, le nostre capacità e risorse, i bisogni psicologici e gli schemi cognitivi, le percezioni e la memoria.
Nella relazione di aiuto con vittime di violenze, soprattutto se reiterate nel tempo, alcuni temi possono attivarci sul piano emozionale con particolare intensità. Riporto alcuni esempi.
Di fronte ai racconti delle violenze intenzionali e l’orrore, la paura e l’impotenza delle vittime, possiamo essere pervasi da un senso di incredulità e orrore, che può portarci a negare la realtà di quanto riferito o a cercarne la spiegazione in un comportamento provocatorio della vittima.
Il segreto e la vergogna, che spesso impediscono alle donne di chiedere aiuto per molto tempo o di accettarlo, possono essere da noi interpretati esclusivamente come atteggiamenti collusivi, per stabilire una distanza sul piano emotivo che possa proteggerci dal senso di impotenza.
Un altro tema è costituito dal forte legame affettivo della donna con l’aggressore quando, nel maltrattamento cronico, questi è un partner o familiare. Spesso la vittima sembra proteggerlo ed ha nei suoi confronti sentimenti ambivalenti e spesso caotici, in un rapporto di forte dipendenza, con una incapacità di proteggersi e di proteggere i figli, quando presenti. Nel maltrattamento cronico, la relazione con il maltrattante diventa centrale e definisce i confini delle interazioni con il mondo. Anche i figli restano sullo sfondo e, spesso, la madre attribuisce loro modalità di funzionamento adulte per non affrontare la loro paura e i loro bisogni emotivi.
E’ difficile, per noi operatori, tollerare l’indifferenziazione caotica della donna dall’aggressore che mette a dura prova le nostre certezze sulla possibilità di distinguere e separare il bene dal male, pertanto di proteggerci e proteggere. Identificarci con la donna ci può mettere in contatto con la nostra vulnerabilità e impotenza, dalle quali cerchiamo di difenderci con sentimenti di rabbia verso la vittima colpevolizzandola "...se sta in quella situazione significa che le sta bene, che è masochista... è lei che se lo è andato a cercare...". In particolare questo sentimento di rabbia ci aggredisce quando la donna sembra non saper riconoscere il pericolo per sé e i figli. In questi casi, se il sentimento non è affrontato, potremmo oscillare fra un evitamento/rifiuto e un cercare di salvarla attivandoci al suo posto.
Uno dei costrutti con cui ci avviciniamo alla violenza è quello della vittima buona che cerca di sottrarsi al male e che non ha comportamenti "cattivi", quali essere a sua volta violenta o vendicativa o dipendente dall’aggressore. L’idealizzazione della vittima ci può portare a prendere le sue parti acriticamente, vedendo solo alcuni aspetti della persona e negandone altri. Questa negazione può avere la funzione di tutelare le nostre credenze su come funziona il mondo, per non entrare in contatto con sentimenti di perdita di controllo, incertezza, impotenza e frustrazione.
I pazienti vittime di traumi interpersonali mettono a dura prova la capacità di restare connessi con le nostre esperienze interne; nello stesso tempo ci mettono in contatto con la loro capacità di sopravvivere e di attivare risorse attraverso nuove relazioni "sufficientemente buone". Il lavoro sul trauma può essere per l’operatore anche una fonte di crescita e gratificazione ed ha una grande valenza spirituale e sociale.
Mantenere un senso di equilibrio e fiducia è la sfida che ogni giorno dobbiamo affrontare sia con strumenti professionali quali la preparazione, la supervisione e il confronto nel lavoro d’équipe, sia facendo appello alle nostre risorse umane e alla capacità di riconoscere i nostri bisogni emotivi.