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la revocatoria delle rimesse bancarie

LA REVOCATORIA DELLE

RIMESSE BANCARIE


Nella nuova legge fallimentare

Dott. Renato Castagnetta




INDICE


Introduzione …………………………...………………………..….. 3


Capitolo 1° - L’Azione revocatoria in generale ………...………….. 5


Capitolo 2° - La riforma della legge fallimentare e l’iter


parlamentare …………..………………………..….. 12


Capitolo 3° - Gli orientamenti delle Commissioni sulle


revocatorie ………………...……………..………… 20


Capitolo 4° - Le principali differenze tra la riforma ed il


vecchio testo …………………..…..……………..… 24


Capitolo 5° - La revocatoria delle rimesse bancarie ……..…..….... 28


5.1 - La riduzione in generale ………..……….. 29


5.2 - La riduzione consistente ……………..….. 30


5.3 - La riduzione durevole ..………………….. 32


5.4 - Il rientro …………………………..……... 34


5.5 - La rilevanza dell’affidamento ………..….. 34


5.6 - Il saldo disponibile .....…………………… 38


Capitolo 6° - Considerazioni circa la due discipline ……..………. 48


Conclusioni …………………..…………………………………… 51


Bibliografia ……………………………….…….………………… 54


INTRODUZIONE


In questo lavoro si intende sviluppare il tema della revocatoria ed in particolare quella riferita alle rimesse bancarie sui conti correnti, un aspetto molto dibattuto nell’ultimo sessantennio, in cui la giurisprudenza è intervenuta con orientamenti interpretativi che hanno spesso determinato il malcontento da parte di coloro che intrattenevano rapporti continuativi e reiterati con il debitore in difficoltà e quindi gli istituti di credito ed i fornitori abituali.


Si affronterà preliminarmente l’aspetto della revoca in generale, e pertanto la possibilità del creditore di intraprendere azioni volte a ricostituire la garanzia patrimoniale del debitore lesa da atti di alienazione precedenti, si analizzeranno le differenze tra la revocatoria fallimentare e la revocatoria ordinaria, diverse sotto l’aspetto del periodo in cui far valere il diritto del creditore ma anche perché nella fallimentare il debitore deve trovarsi in stato di insolvenza e quindi nella impossibilità di far fronte con regolarità al pagamento dei debiti.


Successivamente si affronteranno gli aspetti che hanno portato alla emanazione della nuova legge di riforma del diritto fallimentare con le controversie ed i differenti pareri delle commissioni di studio, la “Trevisanato” prima e la “Vietti” dopo, con le diverse tesi avanzate dai componenti delle Commissioni anzidette. Tutto ciò come vedremo non ha comunque portato ad un dibattito parlamentare ed all’approvazione di una vera legge di riforma, solo successivamente emanata dal Governo mediante un maxiemendamento alle proposte precedentemente formulate, accantonando pertanto l’idea di una vera e propria legge riformatrice.


Importante è il raffronto fra le due differenti discipline con le novità sostanziali della nuova normativa che, in particolare, per quanto riguarda le revoche, ha ridotto il periodo sospetto al fine di limitare altresì drasticamente le azioni civili volte al recupero della massa attiva.


In tal modo però si è limitata notevolmente l’azione della revocatoria e visti i tempi di decorso del procedimento prefallimentare, sarebbe auspicabile che venisse modificato il periodo da quale far valere tali revoche, facendolo decorrere dalla presentazione dell’istanza di fallimento e non dalla sentenza come adesso avviene.


Verranno trattati ancora gli aspetti particolari della revoca delle rimesse in conto corrente, con riferimento alle nuove disposizioni che tengono conto della riduzione, la quale deve essere consistente e durevole, del rientro dall’esposizione debitoria anche in un conto non affidato, aspetti che hanno determinato minore incisività dell’azione revocatoria riducendone di fatto la sua utilizzazione. Sono stati comunque salvati nella nuova normativa i riferimenti al saldo disponibile.


Infine si analizzeranno le due differenti discipline traendone le necessarie conclusioni anche alla luce delle sentenze nel frattempo emanate legate agli aspetti concernenti le rimesse relative a partite bilanciate o su conto senza disponibilità.



CAPITOLO 1°


L’AZIONE REVOCATORIA IN GENERALE


L’azione revocatoria, così come disciplinata agli artt. 2901-2904 c.c., rientra nei cosiddetti mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale prevista dall’art. 2740 c.c.,( Quatraro B. e Fumagalli F. (2002), 5) e (Pajardi P. (1990), 86) secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. La suddetta garanzia non costituisce un vincolo reale su tutti i beni del debitore, quindi essa non impedisce che quest’ultimo possa rendere incapiente il suo patrimonio con atti di alienazione fraudolenti. Proprio per evitare una tale situazione, il nostro legislatore ha predisposto i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale tra i quali assume l’azione revocatoria ( Ferrara F., Borgioli A. (1974), 287 ss e Provinciali R. (1974), 989). Tale tipo di azione ha una funzione conservativo cautelare del diritto del creditore, funzione che si concretizza attraverso la possibilità concessa al creditore di soddisfarsi sui beni che, usciti validamente dalla sfera giuridica del debitore, non sarebbero suscettibili di esecuzione in quanto non possono più formare ulteriormente oggetto della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. ( B igliazzi G eri , B reccia , B usnelli e N atoli ( 1989), 20 ss . ) . Una eventuale sentenza che pronunci l’inefficacia relativa dell’atto dispositivo che renda inopponibile al creditore l’atto compiuto dal debitore, non farebbe automaticamente rientrare di diritto il bene nel patrimonio del debitore, ma costituirebbe esclusivamente titolo affinché il creditore possa assoggettare i beni fuoriusciti alla sua azione esecutiva (art. 2902 c.c.) ( Cass., 22 marzo 1990, n. 2400, in Fallimento, (1990), 790 ).

Da tale azione generale, dobbiamo distinguere l’azione revocatoria fallimentare, la quale presuppone l’esistenza di una situazione di insolvenza preesistente all’atto di alienazione, che avrebbe già dovuto comportare la dichiarazione di fallimento (Punzi C. (1972), 427) . Tale azione riguarda, pertanto, gli atti di alienazione compiuti dall’imprenditore commerciale nel periodo prefallimentare al fine di poterne consentire la ricostituzione della garanzia patrimoniale a favore dei creditori. Quindi nell’ambito dell’attivo fallimentare rientrano non soltanto i beni appartenenti al debitore al momento della dichiarazione di fallimento, ma altresì quei beni che hanno cessato di appartenere a lui anteriormente alla dichiarazione stessa e che la legge, al ricorrere di determinati presupposti, ritiene opportuno ricomprendere fra i beni soggetti all’esecuzione collettiva.


Uno degli strumenti più efficaci e di ampia diffusione per la ricostituzione dell’attivo fallimentare è l’azione revocatoria.


Attraverso tale azione viene consentito di ricostituire il patrimonio del fallito richiamando in esso beni (o liquidità) che ne siano usciti o espellendo da esso debiti o garanzie che siano venuti a farne parte illegittimamente pregiudicando il principio della par condicio creditorum. Proprio la salvaguardia del principio della par condicio creditorum distingue la revocatoria fallimentare da quella ordinaria (pauliana) concessa al singolo creditore a salvaguardia dell’integrità del patrimonio del debitore nel presupposto che quest’ultimo, consapevolmente, abbia compiuto atti con i quali si sia spogliato dei propri beni, sottraendoli così all’azione esecutiva del creditore. Quest’ultima è esperibile soltanto contro quegli atti che effettivamente costituiscono una lesione del diritto del creditore attore. La revocatoria fallimentare oggetto del presente lavoro è collettiva e si estende quindi a tutti gli atti che ledono il diritto alla parità dei creditori, in quanto compiuti dal debitore quando già versava in stato di insolvenza.. Essa si estende allo stato di insolvenza prefallimentare ed è diretta a ricostruire l’integrità del patrimonio del debitore per la soddisfazione della generalità dei creditori, mediante il recupero dei beni usciti da esso durante il periodo di insolvenza, periodo che, in relazione al contenuto dei singoli atti, è variamente fissato dalla legge .

Oltre a tutto ciò, la revocatoria fallimentare si differenzia dalla revocatoria ordinaria per:


i) una maggiore facilità di prova;


ii) un più esteso ambito di applicazione oggettivo;


iii) un più esteso ambito di applicazione soggettivo;


iv) una maggiore ampiezza delle conseguenze legali della pronuncia di revoca;


v) una diversità di presupposti, del proposito fraudolento. ( consilium fraudis) .


Al riguardo nell’ambito fallimentare tale proposito è ridotto alla conoscenza presunta ex lege ( P ajardi P. ( 1986), 357) , da parte del debitore del proprio stato di insolvenza, mentre nell’ambito ordinario, risiede nella consapevolezza che l’atto posto in essere da quest’ultimo arrechi pregiudizio alle ragioni del creditore (P ajardi P. e B occhiola M. ( 1998), 19 ss ) .


Sono pertanto assoggettabili a revocatoria i seguenti atti di cui all’art. 67 della legge:


1) atti a titolo oneroso, pagamenti di debiti scaduti e garanzie che presentino anormalità tali da far sospettare l’intenzione fraudolenta; 2) atti a titolo oneroso, i pagamenti e garanzie che non presentano irregolarità.

Gli atti di cui al punto 1 sono individuati nel comma 1, dell’art. 67 e sono:


i) atti a titolo oneroso in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso . Di fronte a certi atti che presentano qualche elemento di anormalità rispetto alla gestione ordinaria dell’imprenditore commerciale, si presume che l’insolvenza preesista al compimento degli stessi (è il caso della vendita di beni per corrispettivi estremamente inferiori al valore del bene, o di dazione del bene di valore notevolmente superiore al debito). Deve evidenziarsi, in ogni caso, che trattasi di una presunzione di insolvenza relativa e non assoluta in quanto viene consentito al terzo acquirente di provare l’ignoranza sullo stato di insolvenza del debitore nel momento in cui è stato compiuto l’atto (Guglielmucci. L., (1996), 641 ). Ebbene in merito a tali situazioni vengono introdotte due rilevanti novità: in primo luogo viene dimezzato il periodo di sorveglianza (periodo sospetto) che viene ridotto da due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento all’anno anteriore alla stessa. Tale abbreviazione evidentemente ridurrà di molto gli atti che di fatto verranno ad essere attratti nell’azione revocatoria. In secondo luogo, superando la posizione della giurisprudenza fino ad oggi dominante che rimandava al giudice di merito la valutazione del margine di elasticità o dell’alea per declamare la notevole sproporzione atta a legittimare l’azione revocatoria di cui al comma 1 dell’art. 67, R.D. 267/42, le nuove disposizioni vanno a quantizzare tale sproporzione, che viene ad evidenziarsi nel caso in “ cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso ”. Si tratta, evidentemente, di un vero e proprio “blocco” della discrezionalità valutativa fino ad oggi riconosciuta ai giudici che dovranno attenersi a quantificazioni esclusivamente matematiche e disporre o meno la revocatoria in relazione a tali risultati;


ii) atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati in denaro o con altri mezzi normali di pagamento . Si considerano “anormali”, i mezzi di pagamento diversi dal denaro o da quei titoli di credito che la legge e la prassi commerciale equiparano al denaro (ossia: i giroconto bancari, gli assegni circolari o bancari, le cambiali ed i vaglia cambiari) (Apice U. (1998), I, 584) nonché l’utilizzazione del denaro in via mediata ed indiretta quale effetto finale di altre forme negoziali. Quindi, qualora, per estinguere un debito pecuniario scaduto ed esigibile, si utilizzasse un mezzo diverso dal denaro (consegna di merci, titoli azionari, titoli di stato, obbligazioni, girata di effetti o di assegni, pagamenti da parte di clienti o di terzi, cessione di polizze in pegno, cessione di crediti anche fiscali) (Buongiorno G., (2000), I, 580 ) saremmo in presenza di un estinzione non consueta in commercio e quindi di un’operazione sospetta indicativa di uno stato di dissesto . Va ricordato infine che, nell’ambito del diritto fallimentare la giurisprudenza considera mezzo anormale di pagamento anche la c.d. datio in solutum ( a cui deve essere equiparata anche la consegna di merci al creditore perché provveda a venderla e si soddisfi con il corrispettivo della transazione) la quale è quindi sempre revocabile. Essa infatti comporta la sostituzione di un bene come il denaro, con altro bene sostitutivo dello stesso violando in tal modo quella indisponibilità dei beni del fallito conseguente allo stato di insolvenza.


Anche in queste situazioni la modifica concerne il periodo sospetto. Quest’ultimo, in merito agli atti in oggetto, viene dimezzato passando da due anni ad uno. Evidentemente, gli atti compiuti anteriormente a tale periodo non saranno assoggettabili a revocatoria fallimentare ma a quella ordinaria;


iii) pegni (art. 2784 s.s. c.c.), le anticresi (art. 1960 e segg. c.c.) e le ipoteche volontarie (art. 2821 c.c.) per debiti preesistenti non scaduti. La casistica concerne tutti quegli atti di concessione volontaria di garanzia con i quali si vanno a salvaguardare debiti preesistenti non scaduti che in precedenza non erano assistiti da alcuna cautela. Anche in questo caso la revocabilità è condizionata dal fatto che la parte a favore della quale la garanzia è concessa provi di non conoscere lo stato di insolvenza del debitore.


Il periodo sospetto dalla costituzione della garanzia passa dai due anni, previsti dalla normativa previgente, antecedenti la dichiarazione di fallimento ad un anno.


iv) pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali (art. 2818 c.c.) o volontarie per debiti preesistenti scaduti. Rientrano di norma, in questa fattispecie, le ipoteche concesse volontariamente ad Istituti di credito per evitare la revoca dei fidi o ad altri creditori per scongiurare azioni esecutive, oppure iscritte giudizialmente sulla base di un decreto ingiuntivo. In queste situazioni il periodo di sorveglianza viene ridotto da un anno a sei mesi.


Ai sensi del secondo comma dell’art. 67 in commento “Sono altresì revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato di insolvenza del debitore i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento” . Perché ai pagamenti di debiti scaduti (atti normali) effettuati anteriormente alla dichiarazione di fallimento sia applicabile la revocatoria fallimentare è necessario che il curatore provi la consapevolezza dello stato di insolvenza da parte del creditore ( Cass. civ., sez. I, 13 agosto 2004, n. 17213, “Il fallimento”, (2005), 89 ), evitando in tal modo una disparità di trattamento fra i vari creditori. In tal caso egli potrà agire in revocatoria dei pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili, di atti a titolo oneroso e di quelli costitutivi di una garanzia di un diritto di prelazione per i debiti contestualmente creati. Da un lato anche per detti pagamenti ed atti il periodo di sorveglianza si riduce da un anno a sei mesi.



CAPITOLO 2°


LA RIFORMA DELLA LEGGE FALLIMENTARE E L’ITER PARLAMENTARE


Uno egli obiettivi della riforma è stato quello di attenuare il regime revocatorio ammannito dalla legge del 1942.


In tale direzione spingevano molti fattori: innanzi tutto, la pressione delle banche, che si consideravano vittime designate di una vera e propria aggressione da parte delle curatele; in secondo luogo, l’esigenza d’allineare la nostra normativa alle soluzioni accolte nella maggior parte degli altri ordinamenti comunitari, al fine di impedire che un regime revocatorio troppo rigido, capace di minare alla base ogni certezza in merito alla stabilità degli acquisti e dei pagamenti, si trasformasse in una vera e propria penalizzazione sul piano della concorrenza; in terzo luogo, le istanze di molte categorie di soggetti, fornitori, acquirenti d’immobili, professionisti, intermediari specializzati e così via dicendo, che ritenevano insopportabile, per le loro economie individuali, il peso delle impugnative; infine ma non da ultimo in ordine di importanza, la speranza d’eliminare, come si è detto, un serio intralcio al tempestivo avvio delle procedure concorsuali e, prima ancora, un insormontabile ostacolo per le operazioni di consolidamento finanziario e di ristrutturazione aziendale. Ovviamente la scelta di ridurre l’impatto delle revocatorie non è senza costi, che si pagano in termini di minore incisività della “ par condicio”(Fiale A., (2002), 9). Si può osservare pertanto che in tal modo si è ridotto il vincolo di solidarietà tra i creditori, con un ulteriore rafforzamento delle classi già forti e che molte procedure non potendo contare sull’apporto delle revocatorie verranno presumibilmente chiuse per mancanza di attivo subito dopo la dichiarazione di insolvenza. (Terranova G. (1996), I, 82) . Ma una attenuazione dell’impatto delle revocatorie appariva necessaria ed improcrastinabile, soprattutto in un’economia come la nostra, che ha bisogno di ridurre i costi, se vuole riacquistare competitività. Su questo punto i pareri generali erano piuttosto concorsi meno per quanto concerne i pareri delle riforme ed è pertanto in un contesto molto variegato di pareri e proposte che si inserisce la necessità di provvedere ad una riforma che contentasse tutti o quanto meno una buona parte ma proprio per questo conseguentemente risultava travagliata.


Il rinnovamento per cosi dire iniziò con un primo progetto complessivo di riforma che fu il DDL n. C-7458 ( Panucci M., Confndustria – Affari legali e Bianchini M., Assonime - Concorrenza bene pubblico (2007) ) e che conteneva una proposta di legge delega di iniziativa governativa, che mirava a riordinare e riformare le procedure concorsuali, predisponendo una procedura unitaria di crisi di carattere anticipatorio ed una di insolvenza, eventuale e successiva, che sostituivano quelle di fallimento, concordato preventivo, amministrazione controllata, liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Non rientravano invece nel progetto di riforma le c.d. procedure speciali applicabili a banche ed assicurazioni. La proposta non prevedeva, inoltre, forme di soluzione della crisi di carattere stragiudiziale, tipo accordi tra debitori e creditori. La procedura aveva lo scopo di consentire il risanamento dell'impresa e la continuazione della sua attività. Il debitore era pertanto tenuto a presentare un piano di risanamento dell'impresa e di estinzione dei debiti (Di Marzio F. (2007), 1 SS). Parallelamente al DDL C-7458 veniva presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge C-7497, elaborata da un gruppo di esperti costituito in ambito DS. Anche tale proposta distingueva tra una procedura di carattere anticipatorio dell’insolvenza (la procedura di ristrutturazione delle passività) ed una invece di carattere liquidatorio (la procedura di insolvenza). Al contrario del DDL C-7458 la proposta dei DS prevedeva la possibilità di accordi tra debitore e creditore, disciplinando, da un lato, una sorta di ristrutturazione parziale nella quale veniva coinvolta una sola classe di creditori, e, dall’altro, i c.d. accordi di composizione negoziale della crisi, accordi tra debitore e creditori (eventualmente anche uno soltanto) omologati dall’autorità giudiziaria. Nonostante la completezza delle due proposte di legge delega (C-7458 e C-7497), nessuna delle due fu approvata nel corso della legislatura. L’assenza di un intervento riformatore della disciplina delle crisi di impresa continuava pertanto a rappresentare una delle più rilevanti lacune dell’ordinamento societario, anche in considerazione del processo di riforma del diritto societario all’epoca già avviato. Per ovviare a tale carenza alla fine del 2001 veniva istituita, presso il Ministero della Giustizia, la Commissione per la riforma della disciplina delle procedure concorsuali (c.d. Commissione Trevisanato), che avrebbe dovuto elaborare un autonomo progetto di legge delega da presentare al Parlamento. Dopo una gestazione sofferta e conflittuale – su molti aspetti della disciplina, si era verificata una divergenza di impostazione tra i membri della Commissione – i lavori della Commissione sono sfociati in una proposta di legge delega, le cui principali caratteristiche possono essere così sintetizzate. Si prevedeva la sostituzione delle procedure concorsuali in vigore (fallimento, concordato preventivo, amministrazione controllata, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria) con una disciplina unitaria articolata in meccanismi di prevenzione e di allerta; procedura di composizione concordata della crisi; procedura di insolvenza. Non era prevista, invece, così come quelle presentate in precedenza, una modifica delle procedure speciali per banche, assicurazioni, intermediari finanziari, cooperative. La disciplina proposta non prevedeva altresì la possibilità di assoggettare a procedure differenti le imprese a seconda delle loro dimensioni o caratteristiche. Le procedure disciplinate erano, quindi, applicabili a piccoli imprenditori, individuali e sociali, imprenditori commerciali ed agricoli, grandi imprese in difficoltà. Uno dei punti più problematici della emananda riforma stava nella disciplina degli atti pregiudizievoli ai creditori. Su questo punto si confrontavano due visioni opposte: la prima, che vedeva nell’azione revocatoria uno strumento con funzione risarcitoria (c.d. concezione indennitaria, per cui dovevano essere revocati soltanto gli atti che pregiudicano le garanzie patrimoniali), e l’altra, che evidenziava l’importanza dello strumento ai fini della tutela del principio della par condicio creditorum , ribadendo l’impostazione della legge fallimentare. Nonostante la piena condivisione dei principi generali della riforma e della scelta di fondo di riordinare l’intera disciplina concorsuale in due sole grandi procedure da applicare all’imprenditore insolvente, su tutta una serie di punti critici si era venuta a creare una spaccatura all’interno della Commissione. Un gruppo di Commissari (c.d. gruppo di minoranza) - tra i quali i rappresentanti della Confindustria, della Banca d’Italia e dell’Abi - sollevava obiezioni sul sindacato riservato all’Autorità Giudiziaria, ancora troppo invasivo anche rispetto alle scelte dell’imprenditore per il risanamento dell’impresa, sulla previsione di misure sanzionatorie (contenute nelle disposizioni penali) eccessivamente incisive nei confronti dell’imprenditore fallito ed indiscriminatamente applicabili anche nell’ipotesi in cui lo stato di insolvenza non fosse dipeso da gravi colpe dell’imprenditore, sul difetto di coordinamento della disciplina fallimentare in corso di emanazione rispetto alle disposizioni recentemente dettate dalla riforma del diritto societario, in particolare con quelle in materia di gruppi di imprese. Il gruppo di minoranza dei Commissari, nell’evidenziare tali criticità al testo in via di emanazione, aveva proposto una serie di emendamenti, che hanno di fatto condotto alla elaborazione di una versione alternativa del disegno di legge. Nel luglio del 2003, entrambi i testi sono stati presentati al Ministro della Giustizia, al quale è stata rimessa la scelta definitiva in merito a quello da presentare al Parlamento per l’approvazione definitiva. In ragione delle profonde differenze tra le due proposte, il Ministro della Giustizia ha ritenuto opportuno, anziché scegliere tra uno dei due testi, istituire una Commissione ristretta, con il compito di elaborare un nuovo articolato (non più un disegno di legge delega, ma, direttamente, un disegno di legge sostitutivo della vecchia legge fallimentare). Nella stesura del disegno di legge, la Commissione ristretta di esperti ha tenuto conto dei lavori seguiti dalla Commissione Trevisanato, cercando, senza successo, di contemperare gli aspetti sui quali si erano riscontrate le maggiori divergenze. Anche questo provvedimento non ha avuto alcun esito parlamentare. Contestualmente ai tentativi di stesura di un progetto di riforma della disciplina delle procedure concorsuali, il Consiglio dei Ministri aveva approvato l’8 marzo 2002 un disegno di legge (DDL n. S-1243), recante “Modifiche urgenti al R.D. 16 marzo 1942, n. 267” . Il disegno di legge si proponeva di intervenire sugli aspetti più critici della legge fallimentare, al fine di realizzare “un allineamento” agli orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale. Questo intervento di modifica avrebbe, peraltro, dovuto avere un carattere meramente anticipatorio rispetto alla riforma di più ampio respiro, da realizzare attraverso la definizione di una legge di delega, alla cui stesura stava già lavorando la Commissione Trevisanato. Il disegno di legge proponeva alcune modifiche alla legge fallimentare vigente ritenute urgenti, che comportavano l’abrogazione di alcune norme diventate superate ed in contrasto con altri settori dell’ordinamento (Le modifiche introdotte dal DDL in esame si ispiravano a quella che avrebbe dovuto essere l’impostazione della riforma futura (abbandono della concezione afflittiva del fallimento, conservazione, per quanto possibile, del valore aziendale e migliore valorizzazione dell’attivo a vantaggio dei creditori). I lavori relativi al DDL in esame hanno avuto un andamento altalenante, in parte condizionato dall’accidentato iter dei lavori della Commissione Trevisanato. Proprio per superare la grave situazione di impasse che si era verificata all’interno della Commissione Trevisanato, il Governo ha ritenuto opportuno ridare impulso ai lavori della c.d. mini-riforma della legge fallimentare, presentando, a dicembre 2004, un corposo numero di emendamenti al citato DDL S-1243 pendente davanti alla Commissione Giustizia del Senato, che ne ampliava notevolmente i contenuti. Tale intervento (noto come maxi-emendamento) si proponeva di apportare importanti modifiche a numerosi istituti della legge fallimentare, così da renderli maggiormente rispondenti alle esigenze del mercato, e rinviava alla stesura di una successiva legge di delega la definizione di ulteriori principi. Gli emendamenti del Governo, ancorché approvati nel Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2004, non sono stati, però, oggetto di successivo dibattito parlamentare. Per non vanificare per l’ennesima volta le proposte di modifica contenute nel maxiemendamento, il Parlamento ha introdotto alcuni degli elementi più qualificanti in esso contenuti nell’ambito del citato DL n. 35 del 2005, proponendosi di inserire le restanti disposizioni all’interno di un disegno di legge che avrebbe dovuto trovare definizione in sede parlamentare. Con la l. n. 80/2005 il Governo ha provveduto alla conversione del DL n. 35/2005, accantonando però l’ipotesi della presentazione di un autonomo disegno di legge e fissando, all’art. 1, co. 5, 6 e 7, una serie di principi di delega, volti a modificare la disciplina delle procedure concorsuali, da attuare in un ristretto arco temporale. Sono state, pertanto, istituite due distinte commissioni ministeriali rispettivamente presso il Ministero della Giustizia ed il Ministero dell'Economia, incaricate di redigere il testo attuativo della legge di delega. Pertanto, le commissioni hanno licenziato uno schema di decreto attuativo (il D. Lgs. n. 5/2006) approvato dal Consiglio dei Ministri del 22 dicembre 2005 . I provvedimenti per la competitività del marzo 2006 e il decreto legislativo n.5/2006 introducono cambiamenti nella disciplina della crisi d’impresa che vanno nella direzione giusta. La tecnica utilizzata dal legislatore è quella dell’inserimento di modifiche alla legge del ‘42, in quanto la delega, pur ampia, non consentiva la completa abrogazione della vigente legge fallimentare. Non si realizza, pertanto, l’obiettivo di un nuovo disegno organico della disciplina concorsuale (nonostante il titolo del decreto legislativo) e l’intervento normativo è sicuramente incompleto, ma contiene principi di modernità che aprono la strada al cambio di prospettiva da tempo auspicato.



CAPITOLO 3°


GLI ORIENTAMENTI DELLE COMMISSIONI SULLE REVOCATORIE


Il problema di come intervenire sul sistema revocatorio fallimentare, per ridurne l’impatto sui rapporti intrattenuti dall’impresa in crisi con i terzi, si era posto ben prima dell’inizio dei lavori di riforma (Terranova G. (2006) 13 ss), che hanno preso l’avvio con l’insediamento della detta Commissione Trevisanato e sono proseguiti, poi, sotto la vigile direzione del sottosegretario Vietti. Una prima proposta, accolta da alcuni progetti di matrice parlamentare, si era mossa nella direzione di dimezzare il periodo sospetto, portandolo, per gli atti anomali, ad un anno e, per quelli normali, a sei mesi. In tal modo, si sarebbero dovuti ottenere due risultati: per un verso, si sarebbe consentito un più rapido consolidamento degli acquisti, con importanti vantaggi sul piano della tutela dell’affidamento negoziale e della salvaguardia del traffico giuridico; per altro verso. si sarebbe ridotta la massa degli atti revocabili, con la conseguenza di attenuare gli effetti dell’impugnativa su coloro che intrattengono rapporti continuativi o reiterati con il debitore in difficoltà (il pensiero naturalmente correva alle banche ed al problema delle rimesse in conto corrente, ma la riduzione del periodo sospetto avrebbe agevolato, anche i fornitori abituali dell’impresa). Questa soluzione ad alcuni dei relatori fra i quali Giuseppe Terranova sembrava troppo forte ed al tempo stessa insufficiente a raggiungere gli obiettivi sperati: - troppo forte, perché, date le lungaggini delle istruttorie pre-fallimentari che spesso in alcuni tribunali superano i sei mesi, si rischiava di abrogare di fatto l’istituto della revoca dei pagamenti ( compiuti alla scadenza con mezzi normali ) e delle garanzie ( contestuali al sorgere del credito o prestate per debiti già scaduti ) con la conseguenza di cancellare il principio della parità di trattamento tra i creditori ( par condicio creditorum); - ma anche insufficiente, perché, se in certi ambiti si voleva mantenere, nonostante la crisi di impresa, la correttezza delle relazioni commerciali, non bastava attenuare il rischio di revocatorie o ridimensionarne gli effetti, ma occorreva avere il coraggio di stabilire (come già avevano fatto prima altri ordinamenti europei) che certe operazioni (utili alla conservazione dell’azienda, o volte al risanamento finanziario) non possono essere toccate, se compiute in buona fede ed in maniera oggettivamente corretta. Da qui la proposta di prevedere una serie di esenzioni dalla revoca, non più legate, come in passato, alle qualità soggettive del terzo, che ha ricevuto l’attribuzione patrimoniale (Banca d’Italia, gli istituti di credito su pegno, i soggetti che operano nel medio termine ed erogano crediti speciali ecc.) ma fondate sulle oggettive caratteristiche funzionali di alcune tipologie di operazioni. Bisogna evidenziare infine che vi era un terzo orientamento di pensiero, per il quale sarebbero bastati pochi ritocchi al vecchio ordinamento, in buona sostanza limitati all’accoglimento della soluzione suggerita, con riferimento alla revoca delle rimesse effettuate su conti correnti bancari, dalla teoria del massimo scoperto. Il Terranova anche in questo caso si era espresso in senso contrario perché sussistevano altri problemi da risolvere per rendere accettabile tale soluzione e sia perché la revoca deve dirigersi contro un atto o una serie di atti e non può avere ad oggetto una somma di denaro il cui ammontare venga determinato a prescindere dalla individuazione delle fattispecie dichiarate inefficaci nei confronti dei creditori, sia perché l’accennata teoria del massimo scoperto dava esclusiva rilevanza ad un atto contabile senza consentire alcun indagine sulla funzione degli atti che avevano portato a quel risultato aritmetico e senza chiedersi se il dato numerico rispecchiava fedelmente la sostanza dei rapporti sottostanti. Come spesso accade in casi del genere il legislatore ha finito per l’accontentare o lo scontentare un po’ tutti, accogliendo cumulativamente i tre rimedi che erano stati prospettati, con l’unica cautela di dare rilevo al massimo scoperto, non già ai fini dell’individuazione dei presupposti della revoca, bensì solo ai fini della determinazione dei suoi effetti. In questo modo ha prevalso la tesi d’impinguare il numero delle esenzioni dalla revoca a tutela di una serie di soggetti (in primo luogo gli acquirenti di immobili e le banche), che si sentivano penalizzati dall’eccessivo rigore delle norme in materia. Per questo motivo è stata reintrodotta nel testo definitivo della riforma la riduzione del periodo sospetto, con effetti tutto sommato poco dirompenti per quanto concerne il termine biennale, ma con conseguenze assai più pericolose per quanto concerne la revoca dei pagamenti e delle garanzie (a ben guardare anche le vendite a giusto prezzo possono essere impugnate con la revocatoria ordinaria, pur essendo sottoposte al termine annuale previsto dal comma 2 dell’art.67, legge fall.). Un’altra soluzione suggerita da una parte della dottrina era quella di ridurre si il periodo sospetto ma di farlo decorrere dall’istanza di fallimento e non dalla sentenza dichiarativa di insolvenza ma non venne accolta per diversi motivi tra i quali quella di individuare a quale istanza riferirsi nel caso di diverse istanze delle quali una fosse stata ritirata. Esaminati gli orientamenti delle Commissioni vediamo ora di analizzare le differenze tra le due discipline.



CAPITOLO 4°


LE PRINCIPALI DIFFERENZE TRA LA RIFORMA ED IL VECCHIO TESTO


Prima della riforma l’art. 67 L.F., che continua ad applicarsi, peraltro, alle azioni revocatorie nascenti da procedure fallimentari già in essere alla data di entrata in vigore della riforma ( Vietti M., Marotta F. e Di Marzio F. (2007) 35 - 36) , così recitava: sono revocati, salvo che l’altra parte non conosceva lo stato di insolvenza del debitore: 1) gli atti a titolo oneroso compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso; 2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con mezzi normali di pagamento, se compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento; 3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti; 4) i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti. Il comma secondo dell’art. 67 l.f. aggiungeva “ sono altresì revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato di insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esibibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati, se compiuti entro l’anno dalla dichiarazione di fallimento”.

I primi due commi in seguito alla riforma hanno subito modificazioni circoscritte ai soli profili della riduzione del così detto periodo sospetto e della specificazione del concetto di sproporzionato nonché principalmente per quanto concerne alle azioni revocatorie sulle rimesse bancarie si sottolinea una serie di esenzioni. Al riguardo però secondo i dati della ricerca compiuta dall’Osservatorio di Assonime la riduzione coincide al momento con l’azzeramento, o quasi, delle richieste di azioni revocatorie. Naturalmente, non è che tutto ad un tratto i curatori abbiano deciso di non avvalersi più di quello che solo fino a due anni fa – era il principale strumento di recupero dell’attivo nell’interesse delle masse dei creditori; la ragione dell’azzeramento delle azioni revocatorie risiede invece nel fatto che la riforma ha reso tali azioni oggettivamente molto difficili. La conclusione che se ne trae è dunque che oggi l’azione revocatoria fallimentare costituisce quasi solo in astratto uno strumento del quale le procedure concorsuali possono ancora avvalersi; altri sono gli strumenti dei quali più facilmente i curatori si avvalgono e si avvarranno (e sarebbe altrettanto interessante andare a vedere ad esempio se sia aumentato il numero delle azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci).


A spiegare l’azzeramento o quasi delle azioni revocatorie fallimentari basterebbe appunto il dimezzamento del periodo sospetto, operato dalla riforma del 2005: dov’era pari a due anni (come ad esempio in relazione agli atti onerosi a prestazioni sproporzionate,o in relazione ai pagamenti eseguiti con mezzi anormali), ora il periodo antecedente al fallimento entro cui gli atti devono essere stati compiuti per essere astrattamente revocabili è pari a un anno; dov’era pari a un anno (come in relazione ai pagamenti di debiti liquidi ed esigibili), ora è pari a sei mesi. Fra i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili rientrano soprattutto le rimesse su conto corrente bancario e, se le revocatorie fallimentari erano il principale strumento di recupero dell’attivo a disposizione dei curatori, le rimesse su conto corrente erano il tipico e più frequente oggetto di revoca. Ora, proprio in relazione alle rimesse su conto corrente il periodo sospetto è ridotto a soli sei mesi; ma è difficilissimo che delle rimesse vengano eseguite così a ridosso della sentenza di fallimento, quando sei mesi sono spesso già il tempo necessario all’istruttoria prefallimentare.


S’aggiunga poi che alle rimesse su conto corrente bancario è dedicata oggi una norma apposita, contenuta nel terzo comma dell’articolo 67 Legge fallimentare:


- le rimesse sono esenti dalla revocatoria, « purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca » e che tratterò più dettagliatamente in un capitolo apposito .Tale norma deve essere letta insieme con il nuovo articolo 70 Legge fallimentare (pure introdotto dalla riforma del 2005), ai sensi del quale:« Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo nel quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l'ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso ».


Le due norme insieme sono pressoché unanimemente intese come l’espressione della tesi del massimo scoperto,che una parte della dottrina e poca giurisprudenza sostenevano già prima della riforma: secondo questa tesi, la revocatoria non deve avere ad oggetto le rimesse singolarmente considerate (in quanto non è detto che le singole rimesse singolarmente considerate abbiano effetto solutorio, cioè estintivo del debito nei confronti della banca, perché ad esempio è possibile che costituiscano invece la semplice provvista affinché la banca estingua a sua volta debiti del fallito verso terzi e che comunque deve essere sufficientemente provato dalla banca come vedremo successivamente in un commento su una sentenza della Cassazione del 2007), bensì la differenza tra il massimo scoperto raggiunto dal conto nel periodo sospetto e il saldo debitore finale alla data della sentenza di fallimento. Solo in tale differenza, in effetti, consiste il vero rientro della banca dal proprio credito nei confronti del correntista (che ci fossero o non ci fossero fidi); e la potenzialità della revocatoria – pur quando esperibile – ne risulta per lo più ulteriormente affievolita. Allo stesso modo se si trattasse di partite bilanciate non sarebbero revocabili. Dico sarebbero in quanto una recente sentenza della Cassazione ha determinato orientamenti contrari come riporto più avanti che seppur riferita ad un fallimento ante riforma chiarisce comunque quali sono gli orientamenti della S.C. al riguardo.


Altri aspetti differenti rispetto alla vecchia norma sono le modalità di revoca delle rimesse bancarie dove fermo restando la regola del saldo disponibile è cambiato tutto come vedremo nel capitolo seguente per quanto concerne il come ed il quantum su cui applicare le revocatorie.




CAPITOLO 5°


LA REVOCATORIA DELLE RIMESSE BANCARIE


Premesse le principali differenze della nuova revocatoria con le sue caratteristiche cui abbiamo velocemente fatto cenno passiamo al