la signora lia del don bosco
Non amo utilizzare tre aggettivi di seguito per qualificare un soggetto. Trovo che sia un procedimento mentecatto. Eppure questa volta bisogna farlo. Palermo è un laboratorio di ingegni che sussultano, si agitano, sputacchiano bava sui cuscini e ruttano scompostamente talento. Un laboratorio (ecco i tre aggettivi:) inespresso, represso e depresso. Inespresso, perché non c’è alcun dibattito (né interno né, tantomeno, esterno) sui grumi di genialità. Certo, per suscitare scruscio (rumore) qualsiasi cosa deve essere agitata ad arte. E ci vuole anche una gran dose di culo. Prendiamo Addiopizzo. Quelli sì, se parli di loro li conoscono a Bergamo, ad Ancona, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti. Eppure, a pensarci, non hanno fatto altro che scarabocchiare due lenzuola ed esporle nei posti giusti al momento giusto. Chi, nel resto d’Italia, conosce il lavoro duro e appassionante che fa ogni notte Biagio Conte con i clochard della città? Chi, fuori Palermo, conosce la torta setteveli di Cappello? E – per inciso – quanti palermitani stessi sanno che ‘sta torta l’ha inventata il palermitanazzo Cappello, e non viene dalla Sassonia?
Nessuno, nemmeno in questa ingrata città, riconosce l’opera meritoria di quella donna formidabile che si chiama Rosalia La Vardera – ma che tutti chiamano Signora Lia – che una buona decina d’anni fa ha letteralmente preso per i capelli tutti i marmocchi di un intero quartiere (a due passi da dove ammazzarono il dottore Borsellino), li ha tolti dalla strada e ha insegnato loro a leggere e scrivere, gli ha dato da mangiare: per anni. Di fronte al degrado, alla delinquenza, nell’ostruzionismo di preti, in mezzo al menefreghismo di genitori sul ciglio del baratro e delle scuole, la Signora Lia ha okkupato un vecchio convitto salesiano e ha creato un oratorio. Sono bastate un paio di immagini sacre. Mancavano persino i palloni e i bambini si divertivano a lanciare sassi ai piccioni. Niente preti, di nessuno schieramento, ma la Signora Lia è sempre stata una fan di Don Bosco, il vecchio edificio si chiamava tra l’altro Don Bosco Sampolo e la domenica riusciva a far dire la messa a qualche salesiano di passaggio. (C’è da scommettere che se si fosse presentata l’eventualità, all’occorrenza l’avrebbe detta pure lei la santa messa). La Signora Lia ha dato regole, e anche scapaccioni (tanto aveva Dio dalla sua parte). Il valore della vita, come qualcosa di più grande, di più forte rispetto alle violenze e al disagio di stare nel mondo, si è faticosamente fatto strada. E oggi quel quartiere, senza accorgersene, nella fatica di scontrarsi con i problemi di ogni giorno, ha cambiato faccia. Ma di questa avventura straordinaria perché non si parla? Non è la mancanza di libertà d’espressione, il problema. Manca l’espressione, in quanto tale.
( sopra: uno scorcio di via Sampolo, Palermo. A sx l’ingresso dell’oratorio Don Bosco Sampolo )
E andiamo al secondo aggettivo: Palermo, laboratorio represso. La verità è che i palermitani, che così bene stanno contagiando il resto del mondo, sono sonnolentemente convinti che le idee non possano cambiare le cose. Non si crede nelle idee. Che esse possano smuovere il mondo, figurarsi. Il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato. La sfiducia nelle idee diventa mancanza di idee e questa, più di ogni altra cosa, di ogni mafia, di ogni casta, impedisce di andare avanti. Ne consegue la depressione, il terzo aggettivo che qualifica il laboratorio Palermo. Eppure i talenti ci sono! Le professionalità anche! La volontà di creare, di dominare la bruttezza del mondo pure.