Sei in: Articoli: Adolescenti:

Il pagamento nella psicoterapia dell'adolescente


Il pagamento nella psicoterapia dell’adolescente - Franco FERRI - Psicologo


RIASSUNTO - In una psicoterapia con un paziente adulto, breve o lunga che sia, il regolare pagamento delle sedute, tra le tante importanti valenze che ha, ha anche quella di sottolineare l’alleanza di lavoro e nel contempo di regolare la distanza e la vicinanza emotiva. Col paziente adolescente queste funzioni sono mediate da altri fattori e a sua volta il pagamento è “interpretato” da altri fattori che assumono il significato di pagamento. Nelle vignette cliniche presentate, o più semplicemente in ognuno dei casi che possiamo incontrare nella nostra professione, il significato del pagamento non è dato a priori, ma va costruito nella ricerca di una condivisione che dia il senso del lavoro psicoterapeutico. Così il pagamento, con pazienti adolescenti, assume di volta in volta per esempio la valenza di un segreto che, proprio perché non condiviso, può avere delle potenzialità distruttive; oppure può diventare la misura di quanto, delle sue grandiosità illusorie, l’adolescente è disposto a sacrificare pur di imparare a riconoscere le sue vere capacità; o ancora può fungere da fattore di coinvolgimento dei genitori nel proteggere il setting, e magari costringere il paziente a fare un esame di realtà abbozzando un pensiero sul valore di quello che riceve e un pensiero sul suo valore come persona in cerca di accettazione per sé stessa.




La consapevolezza che il pagamento dell’onorario nella psicoterapia in ambito privato sia il fattore che la distingue dalle prestazioni in ambito pubblico è ciò che rende possibile l’incontro fra il terapeuta e il suo paziente. Di più: il pagamento rende possibile il dispiegarsi delle potenzialità del setting terapeutico, sia sul versante del coinvolgimento del terapeuta che sul versante dell’insight emotivo del paziente, proteggendo entrambi dalla perdita dei reciproci confini. Una vasta letteratura in proposito ha sottolineato come il pagamento aiuti a dipanare numerose di quelle ambiguità e ambivalenze che caratterizzano i vissuti, e quindi anche i comportamenti umani a volte patologici, che hanno a che fare col denaro o che il denaro fa emergere.


Nella relazione psicoterapeutica con l’adolescente il problema del pagamento a volte complica la possibilità di costruire una alleanza di lavoro, di solito già difficile di per sé. Ma proprio perché esso può assumere parecchi significati e parecchie implicazioni, diventa quell’elemento della realtà dal quale è conveniente non prescindere perché è anche un potente organizzatore mentale, psichico e relazionale. Basta pensare a quei frangenti in cui gli adolescenti si trovano di fronte alla scelta fra un’adesione consapevole alle spinte evolutive o un abbandono alle nostalgie delle sirene regressive. Che è l’intoppo in cui molti di loro si sentono intrappolati.


Potrebbe apparire del tutto evidente che con pazienti adolescenti le implicazioni etiche del pagamento non sono facili da mettere a fuoco. E forse non è neanche opportuno definirle e darle per scontate una volta per tutte.


Prendiamo spunto da un assioma di partenza che, seppur non condiviso da tutti, è perlomeno riconosciuto da tanti come uno snodo cruciale, e cioè che il lavoro con l’adolescente è molto difficilmente codificabile. Quindi, l’avventura relazionale con un adolescente presuppone un po’ a priori una grande disponibilità a fare i conti con l’incertezza sul senso e sull’efficacia del proprio lavoro.


Alcune cose che con un paziente adulto appaiono scontate, non hanno una eguale evidenza con un adolescente.


In una psicoterapia con un paziente adulto, breve o lunga che sia, il regolare pagamento delle sedute, tra le tante importanti valenze che ha, ha anche quella di sottolineare l’alleanza di lavoro e nel contempo di regolare la distanza o la vicinanza emotiva. Col paziente adolescente queste funzioni sono mediate da altri fattori e a sua volta il pagamento è “interpretato” da altri fattori, come cercheremo di vedere in alcuni casi clinici che vi porterò, nei quali essi hanno assunto il significato di pagamento.


Il comportamento e la realtà psichica dell’adolescente sono stati oggetto in questi ultimi decenni di interesse crescente da parte dei mass-media e degli specialisti che se ne occupano a livello professionale. E’ un fatto facilmente constatabile che i tecnici dei primi possono vantare il raggiungimento di una notevole competenza nella comprensione (e oserei dire nella manipolazione se non nello sfruttamento) delle tendenze omologatrici così diffuse tra i giovani, da quelle di costume a quelle ribellistiche o provocatorie. Al contrario, il tentativo dei secondi di dipanare le motivazioni profonde di ogni singolo paziente porta quasi sempre su strade e percorsi sorprendenti, lasciando la non sempre gradevole sensazione di avere in mano un’unica certezza: quella di un bisogno profondo di quell’adolescente specifico, di sfuggire ad ogni lettura della sua situazione psichica interna e a ogni previsione circa la sua evoluzione.


Forse è proprio questo il fascino del lavoro con gli adolescenti: la sensazione di essere in campo aperto, in terra incognita.


Già il tentativo di capire con chi si ha a che fare e di mappare il territorio sul quale ci si muove appare di una fluidità sfuggente. Quando accettiamo la sfida di confrontarci con loro alla ricerca di un significativo contatto, tale indefinitezza permette alla nostra sensibilità di attaccarsi a qualsiasi elemento che compaia nella relazione. Anzi, a volte le permette di lasciarsi irretire e sedurre da quelli lasciati sullo sfondo tanto da sembrare quasi assenti.


In contesti così sfumati è intuitivamente difficile mettere a fuoco qualcosa che permetta di definire un’etica del pagamento nella terapia con gli adolescenti.


Si sarà già intuito che non arriveremo a conclusioni definitive. Qualche riflessione è però possibile sulla base dell’esperienza clinica. Alcune vignette come quelle che proporrò potrebbero venirci in aiuto.


Innanzitutto sappiamo che, sia che se ne parli, sia che non se ne parli, la questione del pagamento c’è. C’è nella mente di entrambi, paziente e terapeuta, ed è emotivamente presente nel preconscio di entrambi.


Innanzitutto: di quali, o quale, adolescente stiamo parlando?


Dal punto di vista dell’arrivo in consultazione abbiamo gli arrivi autonomi, quelli per imitazione, quelli inviati, quelli accompagnati dagli amici e quelli accompagnati dai genitori. –Abbiamo quelli ai servizi pubblici e quelli al privato e tutte le possibili variazioni sul tema-.


Dal punto di vista anagrafico c’è il 13enne e il quasi diciottenne. E’ evidente che sono due estremi che potrebbero rispecchiare due situazioni agli antipodi


Dal punto di vista fisico abbiamo l’imberbe o il barbuto tra i maschi e la bambina o la donna tra le femmine.


Da quello sociologico abbiamo il ragazzino che non ha nessuna idea di che cosa possa voler dire “pedalare” e quello che magari a trent’anni non ha ancora guadagnato una lira (un euro); quello che non è mai uscito di casa e quello che ha fatto della strada il suo mondo; quello che dà per scontato d’avere sempre un posto a tavola e quello che sembra intrappolato in una lotta continua, aperta o sotterranea contro i suoi genitori (o chi per essi).


Dal punto di vista dello sviluppo psico-sessuale, tenendo distinte le problematiche delle ragazze da quelle dei ragazzi, abbiamo le bambinone o i bamboccioni e le ragazze-madri o i ragazzi-padre.


Dal punto di vista della individuazione-separazione abbiamo quello che già appare un leader e quello ancora attaccato “alle gonne materne” (anche se oggi sono molto rare, a dispetto di un codice materno estremamente invadente in tutti i campi istituzionali).


Infine da quello della psicopatologia portata in consultazione abbiamo l’iperattivo-ansioso e il “cattivo-caratteriale” (categorie osservative dell’ambiente, piuttosto che quelle intrapsichiche del soggetto); abbiamo la normale crisi di crescita (difficoltà di adattamento al proprio corpo o all’ambiente) e il breakdown evolutivo riconducibile alle difficoltà di integrazione del corpo sessuato nel sé consapevole; abbiamo l’acting suicidarlo e la negazione quotidiana della morte con i comportamenti a rischio.


Cosa c’entra tutto ciò con il pagamento?


Ora, a mio parere, occorre tenere in gran conto quale sia il passaggio evolutivo che l’adolescente sta affrontando quando viene, o quando viene condotto, da noi.


Esso può essere, dicevamo, quello dell’integrazione del proprio corpo sessuato nelle consapevolezze del sé. Può essere quello di un sé ipertrofico con strutture narcisistiche immature in difficoltà a riconoscere altri da sé. Può essere quello della ricostruzione del sé dopo un trauma devastante…


In questi casi, o più semplicemente in ognuno dei casi che possiamo incontrare nella nostra professione, il significato del pagamento non è dato a priori, ma va costruito nella ricerca di una condivisione che dia il senso del lavoro psicoterapeutico.



MICHELA, quasi 14enne alla fine della terza media, è stata inviata da me dal neuropsichiatria che l’ha presa in carico per l’aspetto farmacologico. E’ accompagnata dai suoi genitori: dopo l’incontro a tre e una breve parentesi viso a viso con Michela, i genitori mi rubano ancora qualche minuto. Mi chiedono ansiosamente di nascondere con cura a Michela la questione del pagamento: per loro è ancora una bambina e non vogliono turbarla con preoccupazioni che secondo loro, non hanno a che fare con le sue difficoltà.


Michela presenta un evidente breakdown evolutivo, con crollo del rendimento scolastico, angosce con ritiro psichico e aspetti persecutori deliranti: in un corpo dalla prorompente e perfino eccessivamente esibita femminilità si coglie un’affettività ingenua, pensieri sognanti e una povertà di interessi e relazioni, tali da far pensare a una posizione difensiva rispetto alla sessualizzazione del corpo. I genitori, due brave persone profondamente religiose, la vivono e sopratutto la trattano ancora come una bambina, evidentemente imbarazzati dalle sue rapide trasformazioni corporee così eclatanti a cui forse non erano preparati.


Nel breve incontro con loro mi avevano anche riferito di non essere preoccupati per la bocciatura scolastica della figlia così che ella avrebbe potuto “rimanere in casa senza andare in giro a correre dei pericoli”.


L’avvio della relazione terapeutica con Michela è molto difficoltoso, sulla difensiva e popolato di nebulosi fantasmi persecutori, riconducibili ad angosce relative alla scena primaria e all’area della sessualità, la sua e quella dei genitori, mai direttamente nominata.


Dopo qualche tempo per avvicinarsi a quest’area, Michela, evidentemente rassicurata, comincia a portare in seduta l’amico immaginario. Appare chiaro a questo punto che si è instaurata una positiva alleanza di lavoro con me e sempre più frequentemente ella osa accennare a oscure e sconosciute richieste corporee, subito coperte con un desiderio acuto di ritiro in un mondo privo di ombre e contrasti. L’accettazione senza angoscia da parte mia di entrambe queste dimensioni della sua mente permette a Michela di sperimentare sia le fughe in avanti di un corpo che non riconosce come suo, sia il sogno ingenuo ad occhi aperti di un paradiso terrestre dove non ci sono sorprese e tentazioni. Comincia così ad accettare e a sperimentare le varie parti del sé alla ricerca di una loro difficile coesione sotto lo sguardo non giudicante del terapeuta, lontano dagli sguardi ingombranti dei genitori, probabilmente anche loro in una qualche difficoltà.


Infatti lei sente che a parole essi vogliono vederla crescere, ma sente altresì che emotivamente sono angosciati dai suoi cambiamenti e dalle sue sperimentazioni. Così, preconsciamente se non proprio in maniera inconscia, questi genitori si trovano, come vedremo, a muoversi in una logica di boicottaggio della terapia.


Infatti, rompendo il setting che avevamo concordato e che prevedeva l’assoluta riservatezza del lavoro con Michela, si sono presentati un giorno con lei senza preavviso a esigere informazioni sull’andamento della terapia, rivendicando il loro diritto ad essere informati “visto che la pagavano”. Per Michela è stato come un fulmine a ciel sereno: veniva da me convinta che sua mamma la portasse da un suo amico dottore e invece ha scoperto che “costringeva” i suoi genitori a spendere i loro soldi per lei.


C’è stato poco da fare: ogni contenimento messo in atto non è bastato a dare un significato sufficientemente positivo o evolutivo al disvelamento plateale e inopportuno di questo segreto detenuto dai genitori. Tanto più che Michela stessa, in quella fase della psicoterapia, sentiva in prima persona di essere coinvolta nell’ingenuo ma difficile padroneggiamento di altri segreti, ben più carichi di emozioni e fantasmi angosciosi. Si trattava del segreto del suo corpo ormai sessuato col quale adesso poteva “fare veramente” i bambini se solo fosse riuscita a impadronirsi dell’altro segreto, quello dell’accoppiamento dei grandi (fantasie semideliranti circa la scena primaria dell’accoppiamento dei genitori). Ella desiderava ardentemente impadronirsi di quest’ultimo segreto, ma contemporaneamente temeva di scoprirlo perché le avrebbe fatto perdere la posizione di bambina e quindi la sicurezza della protezione dei genitori.


Il trauma della scoperta che proprio i suoi genitori le avevano deliberatamente nascosto un particolare segreto che la riguardava ha fatto esplodere tutta la sua ambivalenza; sentire che essi avevano esercitato su di lei un potere trattandola da bambina, le ha scatenato diverse angosce.


Alcune erano relative alla proiezione su di loro di fantasie di rifiuto, di non riconoscimento e di non accettazione del suo corpo sessuato. Altre erano riconducibili a fantasie di punizione per il disvelamento dei suoi desideri di appropriazione della loro capacità di accoppiamento. Ora lei sentiva di non aver più solo desideri infantili ma anche desideri e fantasie sessuali. Per lei è stato come non sentirsi accettata dai genitori come cresciuta, anzi, che poteva essere accettata da loro solo se rimaneva una bambina.


E ancora: che il suo corpo non più infantile poteva essere pericoloso…


Se volessimo fare man bassa delle intuizioni freudiane, potremmo forse dire che per lei il convergere dei fantasmi inconsci materni di invidia e gelosia per la sua sessualità in stato nascente, assieme ai fantasmi edipici paterni verso una figlia non più bambina, l’hanno spinta verso una posizione regressiva senza sessualità come unico modo per essere accettata da loro.


L’irruzione dei genitori nel nostro rapporto ha cortocircuitato bruscamente i segreti del pagamento e della sessualità adulta, finendo per assumere agli occhi di Michela significati fallici intrusivi e devastanti, deflagrando infine in maniera catastrofica sul rapporto terapeutico.



GIACOMO, 19 anni, telefona a me direttamente a seguito di un ennesimo violento scontro con sua madre, per la sua seconda imminente bocciatura al 4° anno dello Scientifico.


Da alcuni cenni anamnestici raccolti successivamente in un colloquio concordato con i genitori col permesso di Giacomo, risulta che egli, figlio unico, è venuto al mondo per sanare la ferita narcisistica infantile della madre, portatrice di un insulto organico fin dalla prima infanzia, che peraltro, in età adulta, non le ha impedito di mortificare e passivizzare il marito, ridotto da tempo al rango di muto spettatore del dramma relazionale madre-figlio.


Questo figlio, belloccio e intelligente, investito di tutta quella luce che l’occhio materno è stata capace di generare per lui, è cresciuto in un contesto familiare dove nulla gli era precluso, tranne deludere la madre.


Così, nel passaggio evolutivo in cui doveva decidere finalmente se voleva crescere mettendoci del suo o permanere in quella posizione emotiva per la quale pensava gli spettasse comunque la promozione per via della sua intelligenza e simpatia innate, si è trovato a sperimentare momenti di grande smarrimento. Ad essi ha tentato di sfuggire con comportamenti regressivi o con fughe in avanti. Per esempio scappando a Roma per partecipare a un concorso per fotomodelli. Oppure con fughe laterali più che in avanti, ricattando tra l’altro la ricca zia, di cui era l’unico nipote, rea di non volergli regalare una macchina sportiva. Agli occhi di G. quest’ultima era la chiave di volta per entrare nel mondo, del tutto idealizzato, delle modelle da rotocalco, unico oggetto dei suoi interessi. Mai mondo poteva essere così distante dal mondo più terra terra dei suoi rapporti con le coetanee. La realtà alquanto frustrante dei suoi rapporti con loro era dovuto a una presunta impotenza, sperimentata casualmente in un rapporto episodico tempo addietro, ma diventata sempre più invadente nei suoi pensieri. Essa si era venuta configurando come inibizione da ferita narcisistica in un sé grandioso ancora immaturo.


Così era anche il rapporto terapeutico con me: un “tutto dovuto” che avrebbe pacificato il rapporto coi suoi genitori e funzionato come conferma narcisistica, permettendogli di continuare a viaggiare a tre spanne da terra.


Solo il riconoscimento in terapia del dolore sottostante alla frustrazione e all’esperienza depressiva che stava vivendo gli ha permesso a poco a poco di fare alcune distinzioni: accanto a parti si sé immature e pretenziose, altre parti di sé più vitali erano in cerca di consapevolezze superiori circa il piacere di sentirsi capace. Accettando che tale piacere, seppure da guadagnarsi con fatica, era da preferire all’onnipotenza megalomanica, ha imparato a vedere come quest’ultima comportava il rischio di una sofferenza maggiore sotto forma di impotenza e mortificazione del sé.


La crescita delle consapevolezze è avvenuta proprio lavorando sul fatto che lo spazio terapeutico, divenuto via via per lui un importante spazio di libertà e rispecchiamento, poteva portarlo fuori dalle secche di un pericoloso isolamento narcisistico e aiutarlo nel riconoscimento più realistico dei suoi oggetti relazionali. Così Giacomo “pagava” ai suoi genitori, che pagavano me, la tariffa concordata con loro in impegno scolastico. E soprattutto, con la rinuncia ad una quota di proiezioni narcisistiche megalomaniche, “pagava” l’acquisizione della capacità di un riconoscimento effettivo dell’altro da sé all’interno di una costruzione relazionale più realistica.



VANNA, anagraficamente maggiorenne ma ancora in casa coi genitori e priva di una sua vera e propria autonomia, prende appuntamento con me dopo una telefonata del padre che si scusa per la figlia, in difficoltà a chiamarmi autonomamente.


Nel nostro primo incontro Vanna mi racconta che già in una preadolescenza assai turbolenta, ha sperimentato qualcosa che potrebbe essere chiamata una esperienza di psicosi strisciante. Questa fase di sofferenza si è conclusa con un grave scompenso all’età di 16 anni a seguito dell’interruzione di una gravidanza. Quest’ultima è stata vissuta con grandissimi sensi di colpa e sovraccaricata di significati magico-fatalistici di ri-nascita, accompagnati da fantasie pacificatorie del rapporto coi suoi genitori.


Dopo anni di disagi esistenziali, peripezie assistenziali e TS dimostrativi, Vanna pare accetti la proposta di una psicoterapia come ultima spiaggia, dunque con un carico imponente di sensi di fallimento personali. Non ha molte idee ne aspettative ne su sé stessa ne tantomeno sulla terapia, come del resto i suoi genitori, che ho incontrato col suo permesso dopo il nostro primo colloquio.


Pur all’interno di una ancora precaria alleanza di lavoro a distanza di pochi mesi dal nostro primo incontro, l’inevitabile questione del pagamento trattata coi suoi genitori, sollecita notevoli coinvolgimenti emotivi (la busta con la parcella per i suoi genitori è aperta). Qui il pagamento, dicevo, rappresenta un importante elemento realistico di negoziazione che entra stabilmente nei fantasmi sollecitati nella e dalla nostra relazione.


Il confronto fra le sue attuali risorse emotive ed economiche, praticamente quasi nulle, e le fantasie inconsce punitive nei confronti di padre e madre, scatenano il conflitto fra istanze regressive (identificazione con la malattia) e quelle progressive (progetti formativi ed emancipatori al momento poco realistici).


Queste fantasie edipiche sadiche con lontane radici in una fase infantile non ben superata e attualmente fuori dall’area della consapevolezza, erano già entrate in crisi con la gravidanza rifiutata dal rigido superio paterno, mandando in frantumi anche le fantasie di rinascita collegate alla stessa gravidanza, gravidanza che avrebbe dovuto darle uno spazio privilegiato rispetto a quello da lei ricoperto in famiglia di ultima nata, di ultima arrivata.


Che il pagamento delle sedute sia un aspetto dai risvolti emotivi ed affettivi oltremodo rilevanti nella fase attuale, è testimoniato dai diversi actings di Vanna, come la dimenticanza (o forse, per meglio dire, la vergogna) di consegnare la busta al padre, o gli ingenui tentativi di ridurre il numero delle sedute da pagare “perdendo l’autobus”, o ancora l’invenzione di appuntamenti col dentista proprio in orari di seduta.


Eppure, la sorpresa con cui i genitori hanno accolto l’abbozzo di alleanza di lavoro con me sembra percepita da loro in maniera molto positiva: sia il padre che la madre si fanno carico di proteggere al loro meglio lo spazio terapeutico che si è così creato perché da molto tempo nessuno sembrava in grado di stabilire con Vanna una relazione minimamente significativa e duratura, né nelle relazioni ordinarie, né nelle relazioni assistenziali o di contenimento farmacologico.


Che questa alleanza di lavoro abbia agli occhi di tutti ma sopratutto di Vanna, un significato particolarmente positivo è indicato dal fatto che al di là dei salti di seduta, se non proprio in concomitanza con le sedute mancate, Vanna mi chiama parecchie volte al telefonino e riaggancia prima che io possa risponderle, costringendomi tra virgolette a richiamarla. Ora, che queste chiamate abbiano qualche significato difensivo relativamente ai fantasmi di dipendenza che il rapporto terapeutico comporta, è indubbio. E’ anche indubbio che ai suoi occhi il terapeuta rappresenti una ipotesi relazionale carica di affettività, dove i suoi bisogni forse immaturi ma assolutamente vitali non aspettano altro che di essere accolti e aiutati a crescere.


In questo caso, il pagamento, oltre ad avere una funzione di coinvolgimento dei genitori nel proteggere il setting, sembra costringere, per modo di dire, Vanna a fare un esame di realtà abbozzando un pensiero sul valore di quello che riceve e un pensiero sul suo valore come persona in cerca di accettazione per sé stessa.


Ora, quello che ci attende, è il compito di dare un significato evolutivo condiviso, duraturo e possibilmente emancipatorio a questa finestra sugli affetti che si è aperta nella relazione a tre, tra Vanna, i suoi genitori e me.



San Polo 2993 – 30125 Venezia


franco.ferri@tin.it