"Vengo anch'io!" No, tu no!
SANTA MARGHERITA LIGURE 22-23 OTTOBRE 2004
“VENGO ANCH’IO!” “NO, TU NO!”
ovvero: Presenza reale e fantasmatica dei genitori nel setting con gli adolescenti.
Autori (Soci PSIBA - Milano):
Iole Colombini, Franco Ferri, Maurizio Panti, Paola Picozzi, Marisa Zipoli.
Numerosi e talvolta sorprendenti sono i punti critici che si incontrano nel rapporto psicoterapeutico con gli adolescenti e in questo lavoro ci occuperemo di uno in particolare, anche perché lo riteniamo specifico di tale contesto.
In passato l’ostacolo maggiore al trattamento degli adolescenti veniva attribuito in buona misura alla difficoltà di questi pazienti di adattarsi a un setting rigido così come prevedeva la terapia degli adulti. L’evolversi della psicoanalisi e della psicoterapia infantile oltre alle notevoli esperienze nel frattempo maturate proprio con gli adolescenti, ha portato a vedere il setting come un contenitore da costruire di volta in volta, nella cui definizione è opportuno fare i conti con la presenza reale o fantasmatica dei genitori.
Data la tendenza dell’adolescente all’agito, la “presenza” dei genitori – nel suo manifestarsi sotto il profilo sia realistico che fantasmatico – costituisce una realtà ineludibile per il setting psicoterapeutico e conferisce ad esso una “complessità” che, entrando in risonanza, ben si inserisce nel quadro della situazione adolescenziale.
Tale presenza dei genitori oscilla lungo un “continuum” i cui estremi sono rappresentati da una parte dall’interferenza fino all’intrusività e dall’altra dal riguardo (riservatezza) fino all’indifferenza, mentre i figli esprimono più o meno intensamente il conflitto tra il rifiuto insofferente delle attenzioni genitoriali (in nome di una autonomia considerata per raggiunta) e la critica feroce per la loro distanza, affermando che, se fossero nei panni dei genitori, si comporterebbero in modo diverso e sicuramente migliore.
Rispetto al disagio di un figlio entrano in gioco parti indistinte, poco conosciute, che sembrano collocabili sia nel mondo interno dei genitori, sia in parti del figlio che riguardano il suo inconscio ricco di suggestioni, proiezioni, identificazioni primarie e più evolute. Tali parti sono chiamate in causa prepotentemente dai rimandi associativi e dal transfert con il terapeuta.
Il compito dello psicoterapeuta, allora, consisterà certamente nell’accogliere tale “presenza”, ammortizzandone gli aspetti realistici sia da una parte che dall’altra, ma fondamentalmente nello strutturare un setting che permetta di sviluppare nei genitori, anche attraverso il prendere atto della situazione dei loro figli, la consapevolezza dei vissuti fantasmatici che reciprocamente li attraversano.
1° caso clinico
Andrea, 17 anni, era, quel che si dice, un ragazzo di successo.
Affascinante e intelligente, estroverso ma non superficiale, appartiene a una famiglia benestante ed è dotato di notevoli e multiformi capacità “naturali”: gli riesce bene tutto quello che fa.
Il suo background è un’educazione libera, ma impostata sulla responsabilità e dopo un inizio dell’adolescenza vissuto principalmente all’insegna dello studio (in cui raggiunge ottimi risultati) e dell’aiuto verso gli altri (che rimangono sempre affascinati da lui), cade “improvvisamente” in una situazione sia di disinteresse per la scuola fino a farsi bocciare (con grande sconcerto dei suoi professori che agiscono nei suoi confronti la loro profonda delusione), sia di “incomprensibile”, almeno per i genitori, comportamento: beve birra fino a tornare a casa ubriaco; si mette volutamente in situazioni di violenza agita (cui, in seguito, attribuirà un senso di ritrovata libertà); esprime un cinismo, che i genitori non gli conoscono, vantandosi sia dei danni fisici provocati, sia dei segni della lotta che rimangono sul proprio corpo.
Incontrandolo, mi trovo davanti ad un adolescente che ha chiesto di andare a parlare con qualcuno, dall’atteggiamento sicuramente sfidante, ma che appare interessato a “capire” cosa gli sta succedendo e che davanti a me esprime il suo disagio solo attraverso un fumare compulsivo e talvolta un alzarsi e camminare per lo studio per argomentare il suo ragionamento con grande serietà non priva di teatralità (simile al comportamento di un avvocato difensore in un processo), aspetti che scompaiono velocemente una volta mostratigli.
I genitori esprimono la loro grande preoccupazione attraverso un atteggiamento che sembra l’esito di una “elaborazione”: entrambi, infatti, hanno un’esperienza personale di analisi.
Il padre, uomo di cultura e dai grandi valori etici, scarsamente portato verso gli aspetti pratici e con una struttura incline alla depressione, non ha ancora terminato il suo percorso analitico.
La madre, intelligente e curiosa, che nella famiglia visibilmente ricopre il ruolo della persona più consistente, sembra essere l’unica a porsi delle reali domande sul figlio; e, benché sia consapevole di fare fatica a sottrarsi al suo fascino (ciò invece non succede con il secondo figlio), arriva a riconoscere il peso delle aspettative che gravano su di lui da parte di lei stessa e del marito, ma soprattutto da parte della famiglia “allargata”.
Passato qualche tempo, è in un incontro con i genitori da soli (dopo che in precedenza un incontro con tutti e tre era finito in una rissa verbale: “tu non capisci niente!” ha urlato Andrea al padre, andandosene poi con tanto di porta sbattuta) che il padre - riflettendo sulla situazione del figlio a partire da quell’episodio, sicuramente dopo un lungo confronto con la moglie e forse, ipotizzo, dopo averne parlato con l’analista – inizia a riconoscere il suo bisogno di idealizzare il figlio, che “deve” arrivare a quei risultati che lui non è riuscito a raggiungere, ammettendo di aver provato un’ enorme gratificazione nel sentire, da parte della sua famiglia di origine, l’ammirazione nei confronti di Andrea, ammirazione che ora si accorge di aver vissuto “finalmente” come fosse rivolta a lui stesso.
Che Andrea, allora, attraverso il suo breakdown abbia tentato di esprimere un suo desiderio di assomigliargli, purtroppo (e contemporaneamente per fortuna) destinato all’insuccesso, costituisce un facile ulteriore passo verso la possibilità di rendersi conto di quanto sia accaduto.
Il percorso terapeutico ha, da quel momento, potuto aiutare Andrea a riprendersi e ad utilizzare le sue capacità emancipandosi dalle aspettative familiari, passando attraverso una fase di disprezzo della figura paterna.
Ciò in realtà sottendeva il profondo desiderio che Andrea, fin dall’infanzia, aveva nei confronti del padre di riuscire a realizzare, anche a livello professionale, qualcosa insieme con lui, mentre la ormai riconosciuta diversità tra di loro costituiva per Andrea ancora una dolorosa delusione.
2° Caso clinico
Rabi, adottato insieme ad una sorella all’età di 6 anni, la famiglia di origine viveva nello Srilanka. Rabi ha la nebulosa percezione di non aver mai conosciuto suo padre e di essere stato quasi sempre accudito dalla sorella maggiore. Genitori adottivi benestanti, contesto sociale molto vicino agli ambienti religiosi. Ora ha 18 anni ed una ragazza di 17, non ufficialmente la ‘sua’ ragazza, attende un bambino da lui. Questa ha vissuto nell’infanzia eventi pesanti e relazioni familiari difficili: un padre suicida e una madre depressa ospedalizzata in più occasioni. Il ragazzo viene descritto dai genitori come uno che è abituato a dire sempre ‘si’, che spesso sembra torpido, un po’ lento nel fare le cose, a scuola ha sempre avuto un rendimento modesto e veniva aiutato spesso. Ha amicizie che ruotano intorno all’ambiente dell’oratorio, ama le partite di pallone ed i film di avventura.
I genitori descrivono i due ragazzi come irresponsabili ed indifferenti a quanto è accaduto e in particolare la ragazza come una che stava cercando un mezzo per uscire di casa; sospettano che abbia già avuto un aborto spontaneo e che non sia scontato che il figlio sia di Rabi o non, piuttosto, del convivente della madre. Emerge il profilo di due individui poco cresciuti, in cui la ragazza viene dipinta astuta e manipolante, il ragazzo, piuttosto facilone, che si presta facilmente al suo gioco. I signori M. stanno cercando una figura che assuma una funzione mediatrice esterna alla famiglia rispetto alla situazione innescata dal fattaccio: toccherebbe forse allo psicologo ‘sistemare le cose’. Prende corpo nella loro mente che lo spazio della consultazione dovrebbe funzionare come una sorta di giudizio, con eventi senza attenuanti a carico dei trasgressori, dove i genitori, nel contraddittorio, avrebbero l’opportunità di far valere una posizione di parte ‘tradita’. Il ‘nuovo’ bambino viene vissuto come un affronto diretto a loro da parte di un figlio che avrebbe vanificato lo schema familiare basato su codici peculiari e stabili principi educativi.
D’altro canto sembrano non tenere sufficientemente in conto che questo figlio un po’ addormentato, abituato a dire sempre ‘si’, possa avere idee, aspirazioni, bisogni da loro non sufficientemente colti che ora val la pena di considerare con attenzione.
Rabi si presenta al colloquio come un cane bastonato, uno che si aspetta di pagare un prezzo pesante. Parla a fatica solo se sollecitato e sembra non capire bene la situazione. Si mostra spaurito, come in attesa delle decisioni degli adulti: i genitori, la ragazza che, si intuisce, più matura di lui, il terapeuta.
Del bambino in arrivo riferisce che entrambi lo desideravano e, semplicemente, l’hanno fatto. Dopo un allarme solo iniziale, hanno pensato che era meglio fare un figlio a questa età piuttosto che più avanti; ora c’è questo problema dei genitori che non credono che loro lo abbiano proprio voluto, pensano che sia solo ‘successo’. Della madre riferisce che si impone troppo, che vuole sempre avere ragione, che non lo considera un ragazzo ormai cresciuto, che lui con lei non si sente mai autorizzato a discutere. Il padre sembra aver stabilito con il figlio un rapporto più sereno, riconosce la sua crescita, anche se lo invita spesso a dimostrarlo: se sbaglia, gli parla e gli fa capire perché. ‘Lui - aggiunge - mi fa capire la realtà’. Dal compimento dei 16 anni Rabi desiderava andare fuori casa, pensava di poter realizzare questo sogno con un amico; credeva di essere ormai grande per potersi gestire da solo, come una ‘persona normale’.
Lo spazio dei colloqui con Rabi viene gradualmente occupato da vissuti con i genitori di scarne relazioni sul piano affettivo: non si sente apprezzato, né tenuto in considerazione se esprime un’opinione, in realtà non si sente amato. Sicuramente i sentimenti suscitati in passato dai rapporti con i genitori biologici, lontani e più antichi, sono per lui più profondi e difficili da esprimere, mentre, al momento, sembra percepire i genitori dell’attuale famiglia come minaccia od ostacolo alla sua individuazione. Il bambino fantasticato e desiderato allora rappresenterebbe una compensazione affettiva rispetto ad un vuoto profondo ed antico che le relazioni con i genitori adottivi non sono riuscite a colmare. ‘Fare il padre vuol dire avere qualcuno per cui divento importante ’, mi dice in tono sommesso.
Dopo alcuni colloqui si programma un nuovo incontro con i genitori ed uno con il ragazzo per ridefinire i confini del lavoro che si andrà a svolgere.
Nel frattempo si viene a conoscere il sesso del bambino: “sarà un maschio”, Rabi mi comunica molto emozionato.
Nel colloquio con i genitori si riformula il discorso iniziale: non si tratterebbe di ‘sistemare’ le cose, bisognerebbe ora cercare di capire come mai Rabi, ancora così immaturo - come loro lo hanno dipinto - avverta l’esigenza di crearsi ex novo una relazione che lo valorizzi, in maniera paradossale come padre ancor prima di diventare un adulto. Quel suo bisogno di dire sempre ‘si’ che lo ha etichettato sin dall’inizio nella loro famiglia non rappresenterebbe forse un desiderio profondo di essere accettato come uno che non pianta grane, che si tiene tutto dentro?
I genitori ammettono che non vi è molto dialogo tra loro, che Rabi è sempre stato un figlio comodo, in linea con l’orientamento familiare, ma in realtà nella sua dimensione emotiva non riescono ad entrare, non conoscendone desideri ed aspirazioni (sembra non averne: ‘ è taciturno! ’).
Gradualmente si delinea un rimodellamento della loro idea iniziale: offrire a Rabi uno spazio per una psicoterapia non implica, come loro immaginano, fornirgli stimoli di riflessione sul ‘mal fatto’, quanto una opportunità di pensare a quanto il suo sentimento di solitudine possa essere attribuito ai loro atteggiamenti e alla relazione affettiva con i familiari. In tal senso il processo terapeutico dovrà aiutarlo a riprendersi tutte le proiezioni ed investimenti che a livello fantasmatico hanno alterato le attuali relazioni con la famiglia reale.
E’ evidente che i sig. M., così delusi per il suo operato, fanno fatica a vedere un significato profondo nell’acting di Rabi. Transitare da una dimensione di genitori traditi e danneggiati ad una di genitori che devono porsi in ascolto dei bisogni più profondi del figlio sembra un passaggio arduo. Dopo l’incontro del terapeuta con i genitori e la ridefinizione con lui del programma terapeutico, Rabi, riuscirà ad esprimere più chiaramente una richiesta di aiuto ‘per capire meglio la sua situazione’. Qualcosa si è forse sbloccato anche in casa: Rabi, gradualmente più consapevole dei suoi bisogni affettivi, si esprime più liberamente. Il padre, avendo compreso la necessità di porsi con il figlio in una posizione di ascolto e di sostegno, ha proposto a Rabi uno spazio rituale, dove, scambiando le riflessioni sugli accadimenti del giorno, i due riescono ad entrare in contatto a livello emotivo più profondo. Rabi gradualmente acquista fiducia rispetto ad un accudimento che ora si profila come appagante. La sua storia familiare costellata di genitori, assenti o non accudenti, in ogni caso fantasticati, la dice lunga sui suoi bisogni di bambino che desidera essere accolto. I genitori d’ora in avanti cercheranno di accogliere le sue parti infantili che gli fanno desiderare di diventare finalmente importante per qualcuno.
Riesce a portare in seduta con più chiarezza la sensazione di non essersi mai sentito importante e inizia a sognare i genitori lontani.
3° caso clinico
Arriva la telefonata del padre di Tommaso poco prima della seduta del figlio. Tommaso ha 18 anni ed è in terapia dall’aprile dell’anno scorso, da quando cioè i genitori allarmati dal pagellino e temendo una nuova bocciatura, si rivolgono a me perché parli con Tommaso. Siamo a fine giugno e Tommaso è appena riuscito ad ottenere una promozione quasi insperata, sebbene con tre debiti formativi. E’ stata la diversa e contrapposta lettura di questa promozione l’origine del grosso diverbio avuto dal padre col figlio sul suo scarso impegno scolastico, diverbio nel quale sono quasi venuti alle mani (padre e figlio sono quel che si direbbe due armadi). Poi tutto si è calmato. Ed è in questa calma apparente che Tommaso, in evidente stato di prostrazione, ha riferito al padre le sue fantasie autodistruttive qualora non fosse stato aiutato. Evidentemente però, in quel contesto né l’uno è riuscito a spiegarsi, né l’altro è riuscito a capire a che cosa si riferiva la richiesta d’aiuto. La voce calma e determinata del padre al telefono tradisce comunque il suo disagio e provoca il mio disorientamento e la mia perplessità quando mi chiede cosa deve fare anziché rispetto alle fantasie suicidarie, rispetto all’intenzione riferitagli da Tommaso di saltare la seduta.
Non occorre fare fatica per cogliere in questa richiesta tutta una serie di fantasmi angosciosi che vanno dal senso d’impotenza alla paura che il figlio possa essere davvero intenzionato a mettere in atto la sua minaccia. Così i suoi bisogni di rassicurazione (e qui si tratta di bisogni profondi riguardanti anche l’integrità del sé e la propria autostima) si mimetizzano col suo bisogno di entrare d’imperio nella terapia del figlio “costringendolo” a venire in seduta, forse per lasciare nel vago e nell’ambivalenza il bisogno-timore di un suo più diretto coinvolgimento.
Scelgo di rimandargli che ha già fatto molto telefonando per comunicarmi la sua angoscia per la situazione che si è creata e lo prego se possibile di farmi chiamare dal figlio che, come lui sospetta, potrebbe essere rimasto abbastanza disorientato dall’accaduto.
Tommaso aspetta l’ora della sua seduta per chiamarmi: è coi compagni di classe a festeggiare la fine dell’anno scolastico. Verrà la settimana prossima e minimizza la rilevanza e il senso della telefonata del padre. Questa comunicazione mi presentifica in maniera evidente quanto possano essere più efficaci le autoterapie degli adolescenti di quelle progettate dagli adulti, così mi scopro perplesso e ambivalente sull’occasione sfumata di ascoltare direttamente il padre per lavorare con lui sui vissuti che ha del figlio.
Quando Tommaso poi arriva in seduta, è sì disorientato, ma non per l’accaduto, bensì per l’atmosfera ovattata che ha trovato tornando a casa vedendo i suoi genitori che si muovevano come se non fosse successo nulla il giorno precedente.Siccome anche qui sembra che non stia succedendo niente, gli chiedo che cosa ha pensato della telefonata del padre, ma liquida l’argomento come “normale” dicendo che il padre si infiamma per nulla e poi si spegne da solo in un breve volgere di tempo. Accenno a questo punto alla possibilità di lasciar fuori il padre se lo crede, ma che potrebbe essere opportuno capire l’origine di quel suo bisogno di provocarlo con la minaccia del suicidio. Tommaso risponde ancora con distaccata sufficienza. Sembra però accettare la discussione quando gli accenno alla sua presunta incapacità a cavarsela da solo e che a me sembra però ben evidente la sua capacità di spaventare il padre! Su questo tema Tommaso lascia emergere anche in seduta, cosa che non aveva mai fatto in precedenza, i suoi sentimenti di inadeguatezza oltre che di scarsa fiducia rispetto alla possibilità di darsi una prospettiva di vita più soddisfacente.
Con questo paziente mi è capitato poco più avanti di fare un po’ i conti anche coi sensi di esclusione manifestati dalla madre fin dal primo colloquio a proposito della riservatezza della terapia. L’invito a ripensare il setting ha avuto in questo caso un effetto liberatorio.
All’ora di pranzo mi telefona appunto la madre molto eccitata per parlarmi “di una cosa che la sta molto angosciando”. L’ascolto preoccupato. Stamattina non ha saputo resistere alla tentazione di aprire il cassetto di Tommaso in sua assenza e ha scoperto dei pacchettini strani e dei soldi che secondo lei Tommaso non doveva (o non poteva) avere. Ha letto anche il quaderno degli appunti del figlio e si è inquietata molto, ma non mi ha riferito il contenuto. Ora vuol sapere da me come si deve comportare, ma mi avverte nel contempo che ritiene suo preciso dovere controllare i cassetti del figlio.
E’ un modo per dirmi che vorrebbe proteggere il figlio dalle tentazioni e dai pericoli cui può andare incontro se si avventura nel mondo. Ma anche un modo per dirmi che il figlio le sta sfuggendo di mano.
Le rimando che non ho dubbi sul fatto che lei possa avere dei buonissimi motivi per ritenere suo dovere fare quello che ha fatto. E’ che purtroppo poi rischia di trovarsi in difficoltà, come mi sembra le stia succedendo ora, nel gestire sia l’angoscia sia la rabbia da cui si sente invasa nei confronti del figlio. Aggiungo che meglio sarebbe se lei parlasse apertamente con Tommaso di quanto le è capitato di fare; e meglio ancora sarebbe se lei riuscisse a trovare in sé una maggiore fermezza per esprimere più liberamente i suoi dubbi al figlio circa l’ambiguità del suo comportamento in casa: se le era capitato di rovistare nei suoi cassetti era anche perché intuiva che le sue premure ansiose venivano lette dal figlio come continua infantilizzazione a cui cercava di sottrarsi nascondendole i suoi traffici. Aggiungo però che forse avremmo dovuto pensare insieme a un modo meno diretto per rimandare a Tommaso la sua inadeguatezza nella ricerca e nella sperimentazione della propria autonomia. Comunque mi riservavo di parlare col figlio rispetto a quella che sembrava una richiesta da parte della madre di una modificazione degli accordi che avevamo concordato all’inizio della terapia. La madre si dichiara d’accordo.
Il giorno della seduta di Tommaso la madre mi avverte all’ultimo momento che il figlio è a letto da tre giorni con la febbre a 39 (tracheite) e oggi non potrà venire. E’ però riuscita a parlare con lui e si è molto rassicurata quando ha saputo che si trattava di fumo “per uso personale”. Nel pregarla di farmi chiamare appena Tommaso starà meglio le faccio notare che al di là di tutto, mi sembrava fosse stata capace da sola di chiarire col figlio le sue preoccupazioni: la calma raggiunta e forse anche la ripresa della fiducia nella possibilità di capire e farsi capire dal figlio non rendevano più così urgente il rivedere la struttura del nostro setting.
Riflessioni
Il setting della psicoterapia con gli adolescenti viene da noi pensato come sufficientemente ampio da contemplare che anche i genitori ne facciano parte, non in modo strutturato e continuo, come può accadere nei trattamenti dei bambini gravi, ma nel senso di una possibilità che solo talvolta si realizza (anche in modo estemporaneo e apparentemente casuale, legato cioè alla situazione tipica adolescenziale) ma che merita di essere accolta.
Allora, la relazione terapeutica che si viene ad instaurare, a nostro parere, rispecchia maggiormente la complessità che si considera tipica del mondo adolescenziale, facendo entrare nel rapporto terapeutico non solo l’adolescente che si prepara, con vicende più o meno ambivalenti, a diventare adulto, ma anche quell’adolescente che ancora porta su di sé i resti irrisolti di essere “il” figlio di “quei” genitori. Si tratta di una fitta trama che rappresenta un’area inconscia complessa, tessuta delle aspettative, dei desideri dei genitori rispetto al rapporto con un figlio che ha problemi e di quelle di un adolescente che, iniziando a separarsi da loro, mostra con più evidenza la sua fatica di crescere.
In sintesi, tale modalità di setting, favorisce l’espressione – e la conseguente elaborazione - di parti più estese dell’adolescente stesso, permettendo il raggiungimento di uno sguardo più consapevole sul suo poliedrico e movimentato mondo interno, nel senso che sembra svolgere lo stesso ruolo facilitante che si attribuisce - usando una metafora desunta dalla teoria - al residuo diurno nei riguardi della rappresentazione onirica.
Nel caso di Andrea il percorso terapeutico ha, da un certo momento, potuto aiutarlo a riprendersi e ad utilizzare le sue capacità emancipandosi dalle aspettative familiari, passando attraverso la fase del disprezzo della figura paterna, che in realtà sottendeva il profondo desiderio che Andrea, fin dall’infanzia, aveva nei confronti del padre di riuscire a realizzare, anche a livello professionale, qualcosa insieme con lui e come la ormai riconosciuta diversità tra di loro costituisse per Andrea ancora una dolorosa delusione.
Nel caso di Rabi le domande iniziali di cura non potevano essere prese alla lettera e si sono evolute parallelamente al trattamento. La consultazione e la prima fase della terapia hanno rappresentato un passaggio da una situazione poco strutturata, confusa e condizionata dal bisogno di soddisfacimento e di sollievo immediato dei protagonisti della scena familiare ad una definizione in cui i genitori sono riusciti a passare dai vissuti di delusione al riconoscimento di parti più infantili del figlio che non erano state ancora sufficientemente ascoltate. In tal modo, con un riconoscimento di Rabi come persona separata dalle loro proiezioni imbriglianti, sono riusciti a creare e ad offrirgli una sorta di riparazione.
Il compito attuale di Rabi è di transitare da una genitorialità fantasticata sin dall’infanzia ad una genitorialità adulta, cioè capace di generare un nuovo essere legato a lui da un vincolo di responsabilità e di amore. Tale passaggio potrà avvenire solo a condizione che lui stesso riesca a viversi separato e diverso dalle proiezioni messe in atto da adulti, da cui non si è sentito sufficientemente accudito in fasi diverse della sua vita.
Tommaso invece, una volta constatato che il padre non era poi quella roccia granitica che sembrava perché anche lui poteva spaventarsi davanti alle fragilità del figlio, ha potuto permettersi in terapia di accostarsi proprio a queste fragilità e parlarne liberamente forse proprio perché il genitore è rimasto ai margini del suo spazio terapeutico. La madre a sua volta è stata accolta nella sua ansia e ha trovato da sé un modo per confrontarsi col figlio.