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La consultazione dell'Adolescente normale


LA CONSULTAZIONE DELL’ADOLESCENTE NORMALE – Franco FERRI



L’esercizio della psicoterapia con gli adolescenti nei nostri studi ci avvicina al loro disagio quando questo ha raggiunto spesso intensità considerevoli, così che la fatica del lavoro con questa fascia di utenza viene percepita da alcuni come diversa da quella che è in realtà, cioè una fatica normale!


Non so se molti sono disposti a condividere questa definizione della fatica che si fa con gli adolescenti, ma uno sguardo alla normalità dell’adolescenza ci permette proprio di fare questa constatazione: l’adolescenza “è” faticosa, oltre che vitale e creativa. Diventa così pensabile condividere la fatica coi nostri pazienti come un momento che appartiene alla scoperta di nuovi orizzonti.



L’adolescente normale forse esiste solo nelle statistiche o, al massimo, nella mente di chi vuole immaginarlo come tale. Nella realtà si incontrano molti adolescenti che sembrano uguali ma che lasciano immaginare sotto le apparenze i loro mondi interni assolutamente particolari, dove le loro energie psichiche e mentali sono tutte tese alla sperimentazione del Sé e alla ricerca del proprio posto nel mondo, cioè della propria individuazione.


Quindi ogni successivo riferimento al normale e alla normalità andrà preso con molta indulgenza ed elasticità.


Per cominciare, qui per adolescente normale si intende quello che frequenta più o meno regolarmente le scuole superiori senza essere già incappato in qualche inciampo della vita che ne abbia distorto le possibilità di sviluppo. Vale a dire quell’adolescente immerso nella fase esaltante e faticosa insieme, consistente nella continua sperimentazione delle scelte fra le opzioni della vita che diventeranno la base durevole della età adulta.


Cosa si vede, o si intravede, di questa fase al Centro Ascolto? Per usare una immagine cara al mio supervisore, si vede quello che può capitare in autostrada stando su un carro attrezzi fermo in una piazzola: si vedono gli adolescenti che si affannano a correre verso mete che rimarranno al momento per lo più sconosciute ma della cui importanza per il prossimo futuro entrambi, l’adolescente e il terapeuta, sono preconsciamente consapevoli. Per le più disparate ragioni la maggior parte dei giovani ignorerà la presenza silenziosa del Centro Ascolto. Alcuni, di contro, rimanendo alla nostra metafora, potranno approfittarne per una rapida verifica di quei rumori di fondo nel loro funzionamento che rimangono non ben identificati. Ci sarà chi lo farà magari per eccesso di zelo, e ci sarà anche chi, per intuizione preconscia, sente il bisogno di qualche messa a punto più vitale.


Ora, prendiamo il punto di vista di un non comune conoscitore di adolescenti: Winnicott. La sua grande sensibilità lo ha portato più volte a sottolineare come l’adolescente abbia bisogno soprattutto “di non sentirsi capito”, cioè di sperimentarsi nella sua solitudine di fronte al problema della comprensione di ciò che autenticamente sente di voler essere.


Da qui deriva la sua ricetta per gestire le continue frustrazioni cui vengono sottoposti gli adulti interessati a capirli e aiutarli: occorre rispettare questo bisogno di solitudine, mantenendo “affetto e curiosità” senza avvicinarsi troppo ai loro aspetti più autentici che potrebbero spaventarli.


Facile a dirsi, meno facile a farsi.


Lorenzo B. ha 15 anni e si presenta spontaneamente in un Centro Ascolto di una Scuola Superiore. Nel suo modo di entrare c’è già l’idea di come vuole essere percepito: capelli a spazzola, pantaloni col cavallo basso, catenella d’ordinanza, Nike ai piedi e sguardo baldanzoso. Un punk a regola d’arte, ma tirato a liscio, con nostalgie grunge. Dalla catena pende un curioso ciondolo sul quale intravedo un disegno bianco e rosso. E’ un cartello di divieto d’accesso.


Che possa trattarsi di un test, lo immagino poco dopo. Nel suo parlare spontaneamente di sé non intravedo nulla di men che normale se si tralascia un vago accenno a un altrettanto vago calo di interesse per la scuola. Poi aggiunge di essersi divertito molto alla trovata di un suo compagno che ha scritto sul foglio di un compito in classe “…e adesso voglio vedere che voto mi dai!”.


Lo incoraggio a parlarmi lui di come vorrebbe essere valutato da me. Mi spiega di aver capito di essere un pantofolaio dopo essersi iscritto a un corso di canoa durato molto poco: aveva scelto quello tenuto da un famoso campione olimpico col quale non ha poi tardato a rompere in malo modo. Gli rimando che sembra volere un mio parere sulla sua pantofolite: questa idea che ha di sé stesso m’incuriosisce molto, ma ho bisogno di un po’ di tempo per condividerla, perché da come lo vedo e data la sua giovane età, mi pare un po’ riduttiva.


Probabilmente non ho superato il test perché ho rivisto Lorenzo soltanto tre anni più tardi, per tutt’altro problema.



L’idea del Centro Ascolto a casa loro, cioè nel loro ambiente, a scuola, con una accessibilità massima e col minimo dei formalismi, e soprattutto con un limitato numero di incontri, è un capolavoro di strategia: permette all’adolescente di sperimentare l’ambivalenza, e permette al terapeuta di contenere al massimo la sua propensione al coinvolgimento emotivo, limitando i rischi di trascinamento in una qualche forma di acting con loro o al loro posto.


Il filo dell’ambivalenza si srotola fin dal primo incontro; anzi, fin dal primo sguardo: si creeranno delle aspettative illusorie o si riuscirà a “giocare” con la realtà dei vissuti?


Prevarrà la condivisione di una lettura comune delle cose così come stanno o la delusione sostituirà le precedenti illusioni?


Flora F., 14 anni, è una ragazzina dal viso aperto, forse un po’ minuta. Sembra tesa. Viene a lamentarsi della ossessione della madre per quelle che lei, la madre, continua a chiamare eccessive attenzioni del padre nei suoi confronti. E’ un padre acquisito. Il suo vero padre si è separato dalla madre sei anni fa ed ora è morto. C’è attrito fra i genitori, conviventi, sembra per una certa propensione del padre attuale al “fare la lotta” con la figlia: quest’ultima ci sta volentieri a questo gioco perché “si deve allenare per il suo corso di Knick-boxing.”


C’è tensione anche in me mentre sto pensando a cosa mi sta chiedendo con questo racconto. Flora poi riferisce di un rapporto piuttosto disordinato col cibo, il rifiuto del quale e i relativi svenimenti li nasconde accuratamente alla madre. Vuole evitare tensioni, perché basta che prenda un 7 e mezzo invece che i soliti voti (più alti!) per liberare la rabbia della madre.


Mi preoccupo per quelle che potrebbero essere solo ingenuità ma sento anche a disagi più profondi: non capisco di preciso cosa si aspetta da me e come vive sé stessa. Saranno aspetti problematici passeggeri e contingenti, o la spia di una pericolosa confusività? Solo alla fine dei nostri incontri riusciremo a condividere almeno in parte l’utilità di un percorso più strutturato verso una qualche maggiore chiarezza sui vissuti di ciò che le sta capitando, magari da farsi in altro Servizio con più disponibilità di tempo.



B. Monica, 14 anni, frequenta la prima classe e ha un volto da bambina stanca. Ha entrambi i genitori sordomuti e qualche problema a scuola. E’ sui primi che porta la sua attenzione. Descrivendoli, pur senza idealizzarli ne demonizzarli, si coglie che ha verso di loro un sovraccarico di responsabilità: teme che le difficoltà da lei incontrate nell’adattamento alla scuola superiore possano essere per loro una delusione. Monica è sufficientemente tranquilla, per cui decido di lasciare libero il mio preconscio: “E il tempo per te dov’è?”. E’ un po’ come girare l’angolo: ci ritroviamo a parlare di lei in prima persona, delle sue sensazioni di essere contraddittoria, dei suoi interessi, della sua timidezza perché non si piace, delle compagne “che se la tirano” e lei che preferisce essere quella che è. Negli incontri successivi il cambiamento di clima è evidente: sembra in pace col proprio corpo e perfino con sé stessa. Quando ci lasciamo mi dice: “Ora so che c’è una parte infantile di me che reclama ancora i suoi spazi, e una parte di me che vuole crescere, ma non troppo in fretta. E nemmeno perché gli altri si aspettano che io sia responsabile!”.



Al Centro Ascolto, mentre si è in attesa, capita di fare dei pensieri sul prossimo incontro di cui non si sa proprio nulla: si creerà un’atmosfera gradevole, o deludente e respingente? Si rimarrà su un piano realistico e operativo, o più intrapsichico e relazionale?


Il pensiero, il pensare, il pensarsi saranno percepiti come una risorsa o come un inutile fardello, un ostacolo al bisogno di fare?



S. Raffaella, anche lei ha 14 anni: è qui perché ha visto una compagna uscire tranquilla e serena, ma ora rimane sulla porta, incerta se entrare o no. Credo di avere scelto per lei. Infatti la sento un po’ inautentica quando, forse per compiacermi, accenna alla sua esasperata dipendenza dalle critiche della sorella (gemella), con la quale peraltro ha un buon rapporto pur definendola totalmente diversa. Poi si lascia un po’ andare: è una ragazza che emana una straordinaria vitalità ma si fatica a seguire il corso dei suoi pensieri. Parla di tantissime cose. Una sola però è chiara: è esasperatamente innamorata di una nota cantante. Così ha deciso di attivare una colletta per regalarle una chitarra elettrica come segno della sua devozione! Qualcosa mi impedisce di partecipare autenticamente a questo suo entusiasmo. Mi sembra sveglia e intelligente, combattuta fra il problema di emanciparsi dalla sorella e quello di divertirsi, ma complessivamente questa esaltazione un po’ maniacale mi sembra problematica. Di questo mio stato d’animo a lei dev’essere passato molto più di quello che io potevo immaginarmi: la volta successiva mi comunica che non vuole più venire agli altri colloqui perché parlando con me si sente costretta a pensare e proprio non ha voglia di farlo: la fa sentire depressa e piena di problemi.


Per ora la soluzione che ha trovato per contenere la depressione latente passa attraverso una svalutazione delle sue, a mio parere notevoli, capacità di pensarsi.



Al Centro Ascolto capita anche di pregustare il piacere di riprendere il gioco del nascondersi per poi ritrovarsi con cui si era cominciato nel primo incontro, ma non si può mai escludere degli sviluppi imprevedibili, come qualche forma conflittuale di braccio di ferro.


Forse qualche volta occorre accettare la sfida, perché l’evitamento può avere un esito di ritiro problematico.


D. Jari, 18 anni, l’ho visto l’anno scorso in un momentaccio: stava pensando di lasciare la scuola. La perdita di motivazioni si andava mano a mano traducendo in un tracollo del rendimento. Accanto ad una esasperata relazione col padre cui rimproverava di non voler cambiare atteggiamento nei suoi confronti, tanto che riconduceva il suo progetto di abbandono scolastico a una fantasia di ritorsione punitiva (!), mi aveva lasciato l’impressione di una personalità inquieta, magari piena di contraddizioni, eppure ricca, che cercava la sua strada nell’ambito dell’impegno politico e sociale.


Nonostante il mio invito a riparlarne, era scomparso dalla circolazione…


A questo nuovo incontro, dopo una sorprendentemente calorosa stretta di mano, mi riepiloga rapidamente gli avvenimenti (tentativo di recupero in extremis, bocciatura, ripresa scolastica, l’euforia per l’imminente occupazione). Ho quasi l’impressione di un discorso che non è mai stato interrotto, tanto che mi esce spontaneamente la frase: “Ma a te, cosa interessa veramente?”. Jari tira fuori il meglio di sé stesso parlandomi della sua intenzione di volersi occupare degli altri e combattere la Società egoista, del fatto che testa e cuore non hanno pari dignità, e che proprio come dice Nietzche a proposito dell’egoismo umano, anch’io ho dei problemi esistenziali e cerco di risolverli con lui!


Gli rispondo, forse con troppa tenerezza, che se proprio ritiene vitale per lui suggerirmi come affrontare i miei problemi esistenziali, o anche semplicemente parlarne per parlarne, possiamo sempre farlo, ma visto che ha scelto lui di venire da me, forse potevamo più fruttuosamente cercare insieme cosa poteva averlo spinto a ritornare qui. Potevo certo anche sbagliarmi sul suo conto, ma mi sembrava di cogliere qualche tormento in lui che poteva essere il segnale di un insoddisfacente rapporto con sé stesso! Dopo un po’ di silenzio mi spiega che vuole ritirarsi per un paio di giorni in campagna per riflettere lontano dai rumori del mondo.


Intende ritornare per tempo a scuola perché si è assunto delle responsabilità organizzative rispetto all’occupazione dell’Istituto.


Lo intravvederò di nuovo invece solo verso la fine dell’anno, ma non più come studente: è passato di lì per nostalgia dei compagni dopo che ha trovato lavoro e ha preso mezza giornata di permesso sindacale.


In quel fugace incontro mi sono chiesto se questa scelta di individuazione potrà risultare soddisfacente per lui: me n’ero fatta un’idea un po’ diversa.


Il ritorno nostalgico sembrerebbe indicativo di una dimensione evolutiva insatura, ma mi aveva già fatto capire in passato che tocca a lui riconoscerla ed eventualmente usarla per ripartire verso nuove mete.



La sfida di questo adolescente è un po’ la sfida di tutti gli adolescenti: “Vediamo un po’ chi è che ha bisogno di chi!”.


Potrei concludere con un’evidenza apparentemente incontestabile: qualche volta siamo noi adulti che abbiamo bisogno di loro, magari per sentirci utili nell’indicare a loro la via più conveniente per crescere, ma di fatto solo loro in prima persona possono valutare e scegliere le fatiche che si sentono di affrontare.



BIBLIOGRAFIA



RESTA D. “Il conflitto edipico in adolescenza”, in Quaderni dell’Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente , n. 7, Milano, 1997



SENISE T. “Per l’adolescenza: psicoanalisi o analisi del sé’”, in Gli Argonauti , n. 9, CIS, Milano, 1981



SENISE T. (a cura di) “L’adolescente come paziente”, Franco Angeli, Milano, 1989



WINNICOTT D.W. (1968) “Gioco e realtà”, Armando Armando, Roma, 1976