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L'etno-psichiatra: "I giovani immigrati di 3a generazione vivono sospesi"

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«Non sanno nulla
della storia della loro famiglia
ma si sentono diversi
dai coetanei»
elena lisa
torino

Roberto Beneduce è antropologo ed etno-psichiatra. È il responsabile del «Frantz Fanon», il primo centro nato in Italia all’interno del servizio sanitario pubblico con lo scopo di offrire un servizio di supporto e di psicoterapia agli stranieri regolari e irregolari, minori e adulti, e sviluppare ricerche sui processi migratori.

Professore, quali sono i compiti del Centro Fanon?
«Aiuta gli stranieri a combattere contro le angosce provocate da esperienze passate, come nel caso delle vittime di violenza o di tratta, e li accompagna nella ricostruzione di una vita».

Non manifestano nessun disagio per le condizioni di vita presente?
«Indubbiamente, sono spesso la precarietà del presente e la mancanza di diritti a costituire la minaccia più grave. Molti non hanno potuto realizzare nemmeno una piccola parte dei loro progetti: il senso di fallimento è una ferita resa più dolorosa dalla responsabilità che sentono verso i familiari che hanno fatto venire a Torino e quelli rimasti nel Paese d’origine».

Qual è la paura più grande che mostrano di avere?
«Anche chi ha avuto maggiori opportunità spesso si chiedono: “Che cosa accadrà ai miei figli se dovessi morire”».

Beh, è la paura di ogni genitore. O no?
«Per gli immigrati è diverso. Non è paura, è terrore».

Che cosa amplifica la sensazione?
«La mancanza di un diritto che è concreto e simbolico: la cittadinanza».

Simbolico?
«La cittadinanza garantisce possibilità reali, ma nutre anche il senso di appartenenza: si tratta di una condizione essenziale. L’Italia e l’Europa, da questo punto di vista, hanno fallito. La gestiscono in modo cinico, giungono persino a criminalizzare la solidarietà con gli stranieri senza permesso di soggiorno, rendendo la vita quotidiana una prova infinita. Anche quelli “regolari” vivono con la possibilità di essere espulsi».

In cosa abbiamo sbagliato?
«Il concetto di “integrazione” rischia di rimanere un concetto vuoto se non realizza veri diritti. In suo nome, i figli degli immigrati hanno rinunciato a molto, senza avere guadagnato però un vero senso di appartenenza».

Un fatto che può avere conseguenze?
«Principalmente sui membri delle nuove generazioni: hanno quasi del tutto cancellato i rapporti con le culture e la storia dei Paesi d’origine, che spesso ignorano, ma allo stesso tempo continuano a sentirsi estranei nel Paese in cui sono nati, l’Italia, l’unico che conoscono».

Chi sono gli stranieri «3G»?
«Sono bambini che parlano di rado la lingua dei genitori e non possono comunicare con i parenti più anziani. Non sanno quasi nulla della vicenda migratoria della loro famiglia. Sono bimbi “sospesi”».

Le recenti rivolte in Francia e in Inghilterra sono partite spesso proprio da giovani figli o nipoti di immigrati. È così?
«Sì. E’ la protesta di ragazzi che non hanno le stesse reali opportunità di lavoro, di relazione dei loro coetanei, e questo li ha resi inquieti, insofferenti. Si percepiscono ancora vittime di esclusione come ai tempi delle colonie».

Pensare che la stessa cosa possa accadere in Italia è una visione pessimistica?
«Realistica. A meno che non si cominci a comprendere la grande portata, politica e psichica, messa in gioco nella società dall’ “evento immigrazione”».