Sei in: Articoli: LA TRANSIZIONE DEL DIVORZIO:

LA TRANSIZIONE DEL DIVORZIO


LA TRANSIZIONE DEL DIVORZIO




La famiglia è un oggetto di studio tutt’altro che semplice. Ogni cultura è portata a pensare che la forma di famiglia più diffusa in un dato periodo sia l’unica possibile. In realtà, come ha ben mostrato Laslett (Laslett, Wall, 1972), studiando le famiglie in Europa nello scorrere dei secoli, abbiamo visto sorgere, diffondersi e morire diversi tipi di famiglie e l’elenco potrebbe estendersi oggi alle famiglie monoparentali in seguito a separazione-divorzio e alle famiglie ricomposte.


I repentini cambiamenti culturali e sociali a cui ha dato il via la piena industrializzazione, che fa leva su un progresso tecnologico vertiginoso, fanno sì che da questo momento sia sempre più difficile mettere a fuoco con tempestività i nuovi modelli familiari che via via subentrano ad altri, rapidamente obsoleti. Nel tempo il processo di nuclearizzazione della famiglia è giunto così all’apice e le relazioni primarie appaiono troppo isolate e privatistiche per ricoprire ancora funzioni sociali rilevanti.


La famiglia non si evolve linearmente, ma si allarga e si restringe, perde alcune funzioni e ne acquista altre a seconda della situazione socio-culturale in cui è immersa. E’ un sistema antropologico-psicosociale vivo che interagisce attivamente con il contesto (culturale e storico-geografico), influenzandolo ed essendone influenzata. Essa è interdipendente e non dipendente dal sociale: ha cioè una sua autonomia e confini propri. L’equilibrio tra famiglia e società è soggetto a tensioni e la famiglia può correre il rischio di essere annullata nel sociale (come potrebbero essere i casi delle “tribù”), oppure, come nella società postmoderna, rischia di perdere coesione perché la mentalità fortemente individualistica tipica dei nostri tempi esaspera i bisogni degli individui a scapito degli obiettivi del gruppo.



In ogni caso, se la società e la cultura che la sostiene attaccano duramente il legame primario tra i sessi, le generazioni e le stirpi, ovvero ciò che distingue e rende distinguibile la famiglia, esse rischiano di perdersi e di perire.


Se gli studi socio-antropologici hanno mostrato l’ampia gamma di forme e strutture che la famiglia può assumere, la ricerca psico-sociale ha messo in evidenza come una stessa struttura si possa associare a una molteplicità di modelli di relazione. Ma ciò che l’adozione di una prospettiva complessa e dinamica nell’analisi delle relazioni familiari ha fatto emergere è soprattutto la variabilità che caratterizza una stessa famiglia in fasi diverse della sua storia. L’interrogativo che diventa rilevante, da questo punto di vista, riguarda allora come le famiglie cambiano, cioè i processi attraverso cui esse si trasformano. Un gruppo familiare, in ogni momento della sua storia, è l’esito di due processi intrecciati: quello morfostatico, che ne garantisce la continuità e la stabilità nei confronti delle costanti variazioni dell’ambiente circostante, e quello morfogenetico, che regola la sua trasformazione. Processi morfogenetici e processi morfostatici sono profondamente interrelati: la possibilità, per una famiglia, di rimanere se stessa è legata alle sue capacità di mutare in relazione ai cambiamenti dei suoi componenti e a quelli che intervengono nell’ambiente in cui è inserita e con cui intrattiene rapporti. I processi morfostatici hanno dunque a che fare con la continuità familiare, più che con la stabilità, cioè fanno riferimento alla possibilità, per la famiglia, di riconoscersi/identificarsi anche nelle trasformazioni. Dalla ricerca clinica emerge infatti che i gruppi familiari rigidi, che mantengono la propria omeostasi a scapito di ogni trasformazione, finiscono per fallire proprio nella loro funzione di assicurare la continuità del gruppo stesso. Sono le famiglie che sperimentano la paralisi, il disorientamento, la perdita di senso e altre disfunzionalità patologiche che spesso si accompagnano alla rigidità. Le famiglie sono unità dinamiche soggette a cambiamenti continui a diversi livelli: individuale, interpersonale, gruppale e sociale.



Per studiare scientificamente l’”oggetto famiglia” dobbiamo identificarne gli assi portanti che permangono nelle differenti forme che la famiglia ha assunto e va assumendo. Si tratta cioè di definire l’identità della famiglia nei suoi referenti strutturali e simbolici.


Possiamo partire dalla classica definizione di Lévi-Strauss (1967) secondo il quale la famiglia è “l’unione durevole, socialmente approvata, di un uomo e di una donna e dei loro figli”. Secondo questa prospettiva la famiglia è una forma sociale primaria. E’ primaria perché all’origine della stessa civilizzazione in quanto luogo che garantisce il processo generativo da un punto di vista biologico, psicologico, sociale e culturale. Dalla sua tenuta dipende in larga misura la salute della società. Quando infatti la famiglia non funziona su larga scala la società si trova di fronte a problemi sociali irrisolvibili (criminalità diffusa, malattia psichica, droga…). La famiglia in quanto forma sociale primaria di rapporto tra sessi e tra generazioni (legami di filiazione e legami intergenerazionali) svolge un’altra funzione culturale e sociale originaria: essa incarna ed esprime infatti una struttura relazionale (simbolica) che consente agli individui di rappresentarsi e affrontare l’esterno, il nuovo, l’estraneo. La famiglia è un sistema organizzato con una struttura e una gerarchia interna e che interagisce in maniera non casuale con il contesto nel quale è inserita. La specificità consiste nel fatto che essa è un’organizzazione di relazioni primarie fondata sulla differenza di gender e sulla differenza tra generazioni e che ha come obiettivo e progetto intrinseco la generatività.


La relazione coniugale si struttura e si esplicita nel matrimonio. Esso è un patto di reciprocità giuridicamente sancito che, mentre riconosce i diritti, impegna anche i coniugi attraverso una serie di doveri.



Il rito, che abitualmente lo accompagna, sta a significare l’importanza, non solo per i contraenti, ma anche per la comunità, di questo passaggio, che rappresenta la nascita di una nuova entità. La coppia coniugale è infatti l’aurora della famiglia ed è da qui che passa il progetto generativo. Gli aspetti simbolici veicolati dal rito del matrimonio fanno di esso un evento critico particolarmente saliente. Ciò è vero anche per la società odierna caratterizzata da ritualità debole, rispetto a quella di un passato non tanto lontano. E’ mutato il “quid pro quo” coniugale ed è l’intimità, più che l’impegno esplicito e duraturo, a divenire la struttura fondamentale della coniugalità.


La relazione coniugale si fonda su un patto fiduciario che ha nel matrimonio il suo atto esplicito. In questo senso il matrimonio rappresenta il simbolo della transizione che si esplicita attraverso la ritualità. L’espressione “patto fiduciario” condensa e comprende in sé il versante etico e quello affettivo della relazione. E’ il patto che fonda e organizza la relazione; in tal senso potremmo dire che è un organizzatore relazionale. Il patto matrimoniale non si esaurisce però nella dichiarazione di impegno formulata esplicitamente e pubblicamente. Esso è sorretto, da un punto di vista psichico, anche dal patto segreto, che rappresenta l’intreccio inconsapevole, su base affettiva, della scelta reciproca. “Io sposo in te questo e tu sposi in me quest’altro”: questo è in sintesi l’aspetto inconsapevole della scelta. Esso ha molteplici e articolati moventi, ma il suo nocciolo duro, il suo core, esprime le esigenze affettive e relazionali fondamentali delle persone, soprattutto gli aspetti protettivi dal pericolo e gli aspetti di rinnovamento del legame. Ciò significa che ciascun partner porta del suo all’avventura di coppia coniugale, ma anche che è l’incastro di bisogni, desideri e paure a costituire la peculiarità di quella coppia, il suo “inedito”.



Il patto dichiarato richiama invece la valenza etica di vincolo reciproco. Si esplicita infatti in una promessa di fedeltà nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. Esso riguarda un obbligo reciproco da parte dei contraenti che viene testimoniato pubblicamente.


Patto dichiarato e patto segreto possono essere concettualizzati come due variabili curvilineari con un punto intermedio funzionale e gli estremi disfunzionali, vale a dire produttori di patologia. Riusciranno la fiducia e la speranza nel legame con l’altro ad avere la meglio sul bisogno di dominarlo e di asservirlo? Riuscirà il desiderio del corpo altrui e il fascino che emana ad avere la meglio sul bisogno di deprezzarlo e di umiliarlo? Riuscirà la coppia a creare e ad alimentare il proprio spazio segreto e la condivisione di ideali rispettando nel contempo la lealtà nei confronti delle famiglie di origine e l’impegno nei confronti della generazione successiva?


In particolare, il patto segreto può dirsi riuscito quando è possibile praticarlo, cioè quando effettivamente i partner, attraverso il loro incontro, soddisfano bisogni affettivi reciproci e quando è flessibile, vale a dire che può essere rilanciato e riformulato secondo il mutamento dei bisogni e delle attese delle persone lungo il percorso di vita. In questi casi i partner riescono a fare un salto di posizione cruciale. Sono infatti in grado di passare dalla posizione “sposo questo in te” alla posizione “sposo quest’altro in te”. Il patto segreto, in questo caso, si piega e segue flessibilmente il mutare, nel tempo, dei bisogni affettivi e relazionali.


I due estremi del patto segreto sono dati sia dalla sua impraticabilità, sia dalla sua rigidità. E’ impraticabile un patto quando i bisogni che i due partner sperano di soddisfare reciprocamente vengono sistematicamente disattesi. Ciò è tipico della relazione perversa dove uno tenta di realizzare il dominio e la sudditanza dell’altro che a sua volta o ha la stessa logica, o la apprende e la mette in atto. Seduzione, violenza, distacco improvviso e indifferenza caratterizzano l’impraticabilità del patto. E’ questa una situazione di discordia nella quale il patto propriamente non esiste poiché l’intesa è nulla e lo scambio è impossibile. L’altro nella sua realtà e nel suo bisogno non è percepito e il mondo psichico della coppia è costituito da nefaste identificazioni proiettive reciproche e da sfruttamento. Si tratta, in sostanza, di una forma di anti-patto, cioè di un attacco devastante al legame. Siccome il bisogno di possedere l’altro e di ridurlo alla propria mercé con l’uso di tecniche quali la seduzione, la minaccia, la delegittimazione, l’umiliazione, l’opposizione fredda, la corruzione, è imperioso ed è l’unico modo di vivere la vita, la discordia può contrassegnare fortemente la vita intera della coppia.


Il caso della rigidità è dato dalle situazioni in cui il patto si effettua, lo scambio avviene, ma, nell’evoluzione dei bisogni reciproci l’intesa segreta si consuma. Esso non può, così, essere riformulato e rilanciato. Vale a dire che i partner non sono in grado di fare il passaggio da “sposo questo in te” a “sposo quest’altro in te” e perciò, esaurita la soddisfazione di quella particolare forma di incastro tra bisogni, il legame viene meno. L’incastro c’è stato, essi si sono aiutati e protetti reciprocamente dal pericolo e hanno risposto a determinate attese. E’ soprattutto affrontando le situazioni di divorzio che è possibile cogliere evidenze in proposito. Il patto coniugale ha un evidente potenziale drammatico; vive infatti di una tensione costitutiva perché deve tenere insieme due differenze originarie (un uomo e una donna). Esse, come abbiamo visto, si esprimono in ruoli con caratteristiche tipiche (essere marito e moglie) e in comportamenti attesi, ma non si esauriscono mai in essi.




Oggigiorno, in epoca di grande flessibilità di caratteristiche di ruolo e di debolezza dell’impalcatura istituzionale del matrimonio, questa eccedenza della relazione sul ruolo emerge con più chiarezza e drammaticità.


Chi riflette sulla coniugalità non può non formulare la domanda: che cosa tiene insieme questo uomo e questa donna? E’ possibile, e come, che la relazione coniugale risponda alla promessa di realizzazione (vicini nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia) che l’ha avviata? A che condizione questa transizione può considerarsi riuscita o fallita? Qual’è, in sintesi, l’obiettivo da raggiungere? Possiamo sinteticamente dire che l’obiettivo è la costruzione di un patto coniugale che attui e mantenga viva la confluenza tra patto segreto e patto dichiarato. Occorre cioè costruire e rendere effettivo un terreno comune etico-affettivo che esprima il volto peculiare e le caratteristiche di quella coppia. Far confluire patto segreto e patto dichiarato in un terreno comune è un lavoro psichico ed etico che tocca a ogni coppia coniugale.


Si è già detto come il legame di coppia rappresenti il punto di incontro e di mediazione tra storie familiari e come tale incontro sia soggetto a una propria imprevedibilità e fortuità. Oggigiorno, alla imprevedibilità dell’incontro si aggiunge l’incertezza della sua durata e già nel momento in cui la coppia si forma viene posta la domanda sulla possibilità o meno del prolungamento nel tempo del legame. Il divorzio diviene così un’occasione dolorosa e drammatica.


Era difficile e quasi impossibile, un tempo, lavorare sulla relazione in crisi: i matrimoni erano felici o infelici e comunque stabili e la stabilità non dipendeva affatto dalla qualità della relazione. Oggi, al contrario, le alte aspettative reciproche dei due coniugi, la ricerca del benessere personale unite al calo del controllo sociale, fanno sì che la coppia, assai più facilmente che in passato, si confronti e riveda più volte il patto a suo tempo stabilito e può accadere che da questo processo di revisione la relazione coniugale ne esca sconfitta.


Un fenomeno in forte accelerazione dagli anni Novanta è appunto quello dell’instabilità coniugale. Per lungo tempo separazioni e divorzi sono rimasti su livelli molto moderati se confrontati al resto del mondo occidentale. La novità di questi ultimi dieci anni è quindi, più in generale, il fatto che alcuni fenomeni che si pensava potessero rimanere su incidenze molto contenute nella società italiana, sono invece entrati in una nuova fase di crescita che sta rapidamente colmando il divario con la situazione degli altri paesi dell’Europa occidentale. Nel giro di poco più di una decade si è infatti assistito a quasi un raddoppio del tasso di divorzialità totale, passato da 80 divorzi ogni mille matrimoni ai quasi 150 attuali. Nell’analisi del fenomeno dell’instabilità coniugale va tenuta presente la particolarità dell’ordinamento italiano ed il fatto che oltre il 40% delle separazioni non prosegue verso il divorzio, senza necessariamente tornare indietro verso una ricomposizione del matrimonio. Una parte molto rilevante degli scioglimenti non entra quindi nella contabilità dei divorzi. Un ritratto dell’instabilità più completo si ottiene dalla disamina di evoluzione e livelli delle separazioni. Se arriva al divorzio quasi il 15% dei matrimoni, lo scioglimento per separazione riguarda invece oramai quasi il 30% delle unioni coniugali. Negli ultimi dieci anni è cambiato, come varie indagini testimoniano, anche l’atteggiamento degli italiani verso la rottura coniugale. Se la grande maggioranza (oltre l’80%) degli italiani non considera il matrimonio una istituzione superata, è ben vero che una percentuale altrettanto elevata considera giustificata la scelta di divorziare nel caso di unione “infelice”. In particolare, circa il 70% delle persone tra i 18 ed i 49 anni mantiene tale posizione anche nel caso di presenza di figli. E ciò vale anche per l’Italia meridionale, caratterizzata usualmente da comportamenti più tradizionali.



Non solo sono in aumento i matrimoni che si sciolgono, ma durano anche sempre meno. Attualmente circa il 20% delle separazioni ha durata inferiore ai cinque anni. La vita media passata in matrimonio per le coppie che si separano è attorno ai 13 anni. Tale durata si sta però progressivamente accorciando. I matrimoni più recenti evidenziano infatti un aumento generale dell’instabilità, ma con un’accentuazione nei primi anni di vita coniugale (analogamente a quanto si osserva in molti altri paesi occidentali). Va inoltre considerato che al momento della separazione oltre una donna su tre ha meno di 35 anni (ed il 60% ha meno di 40 anni). Un valore relativamente elevato se si pensa all’età sempre più tardiva di formazione della prima unione. Ciò significa anche che una parte rilevante delle donne che sperimentano un fallimento coniugale può pensare di formare una nuova famiglia con figli.


Il peso delle conseguenze della rottura matrimoniale, soprattutto sul versante femminile, ha fatto sì, come accade in molti processi di diffusione di comportamenti innovativi, che per lungo tempo fossero soprattutto le donne con titolo di studio più elevato e con maggiore autonomia economica, ad operare la scelta di rompere una relazione di coppia non ritenuta più soddisfacente. Nei paesi nei quali gli scioglimenti matrimoniali sono divenuti più comuni la relazione con l’istruzione femminile è diventata molto meno rilevante. Alcuni recenti studi relativi agli Stati Uniti, mostrano l’emergere di un cambio di segno, ovvero una maggiore fragilità dei matrimoni di persone con status sociale più basso.


Anche nel nostro paese, nonostante sia ancora maggiore l’incidenza delle rotture di persone con titolo di studio elevato e tra le donne occupate, cominciano però a diventare sempre più frequenti gli scioglimenti nelle categorie sociali medio- basse (che ricorrono, tra l’altro, maggiormente al rito contenzioso). Ciò potrà accentuare le situazioni di difficoltà economica dopo la rottura, soprattutto per le donne (più spesso non occupate o sottoccupate nelle classi medio- basse) che si troveranno sole con figli.


L’aumento dell’instabilità coniugale, unitamente alla diffusione di un atteggiamento più aperto verso la rottura anche nel caso di presenza di figli, è destinato, inoltre, verosimilmente a far aumentare in modo rilevante il numero di bambini che sperimenteranno la rottura del matrimonio dei genitori.


Secondo i dati Istat, attualmente quasi due coppie che si separano su tre hanno dei figli, e in oltre la metà dei casi si tratta di minorenni (si sale quasi al 60% nel Mezzogiorno). Fino agli anni più recenti, i figli venivano nella stragrande maggioranza delle separazioni affidati esclusivamente alla madre. Se a metà anni Novanta in oltre il 90% dei casi i bambini venivano assegnati alla madre, si è scesi a poco più dell’80% negli anni più recenti. E’ diminuita sensibilmente, nello stesso periodo, anche l’assegnazione al padre (da oltre il 6% a meno del 4%). Mentre è decisamente aumentato l’affido congiunto o alternato (da meno del 2% a più del 10%).


Come si è detto, la natura incerta e fragile della coppia sempre più autocentrata e sempre meno sostenuta dalla dimensione sociale del patto che la lega, rende oggi il divorzio una prova possibile, un evento che può accadere nella storia coniugale. Ogni transizione, soprattutto se innescata da una perdita, porta con sé disorganizzazione e sofferenza, coinvolgendo tutta la rete di relazioni in cui un individuo è inserito. Separazione e divorzio, in particolare, sono la conseguenza di una frattura che si inserisce entro un contesto di perdita che non di rado degenera in odio e discordia e che mette profondamente alla prova la famiglia lasciando tracce profonde nella vita dei suoi membri. I conflitti coniugali sono come un filo invisibile che lega i partner in una morsa che li obbliga a comportamenti disfunzionali e controproducenti verso tutti i membri della famiglia. E' il caso in cui si strutturano situazioni di disagio e sofferenza psicologica che hanno ricadute negative su tutte le persone coinvolte.



Il conflitto coniugale può essere così potente da condurre i soggetti che ne sono coinvolti a mettere in atto, in modo consapevole o inconsapevole, comportamenti disfunzionali per se stessi, contro il partner e naturalmente i figli. La percezione del fallimento del proprio progetto familiare, associata alle diverse emozioni che lo accompagnano come l'astio, la rabbia, la demoralizzazione possono condurre ad azioni tese a rivendicare il proprio tempo perduto, l'impegno dedicato alla famiglia, o a voler mettere in atto un percorso di risarcimento psicologico che si combatte sia in famiglia, nei momenti di incontro della coppia, sia per vie legali.
In alcuni casi, la situazione è così complessa e compromessa sul piano emotivo che un partner può attivare una serie di comportamenti volti a estromettere l'altro dalla vita della famiglia e in particolare da quella del figlio. Il processo di estromissione si sviluppa con comportamenti di esclusione dalle scelte, di limitazione della presenza sino ad attivare comunicazioni di denigrazione che portano il partner estromesso a vivere sentimenti di sofferenza psicologica, di depressione, di rabbia, di impotenza.
In queste situazioni l'effetto principale è l’alienazione dal ruolo genitoriale o dalla vita familiare e nei confronti del figlio l'alienazione dalla possibilità di ricevere il sostegno, la cura, l'amore.


La separazione, diventa un nuovo scenario di conflitti, in cui i figli rischiano di perdere la possibilità di crescere in un ambiente sereno e tranquillo sul piano relazionale ed emotivo con entrambi i genitori. Quando la conflittualità coniugale continua dopo la separazione i figli perdono un loro diritto fondamentale: quello di crescere con entrambi i genitori, ovvero il diritto alla bi-genitorialità.


Come dunque affrontare questa transizione? A quale obiettivo, pur fra mille ostacoli, deve tendere tale processo e a quale fine comune devono concorrere i membri della famiglia tramite l’assolvimento di specifici compiti di sviluppo?


Potremmo dire che l’obiettivo fondamentale di questo passaggio è affrontare la fine del patto sapendo portare in salvo il legame medesimo (Cigoli, 1999). Ciò significa essere in grado di ricercare e di riconoscere, accanto a ciò che è stato fonte di dolore e di ingiustizia, ciò che di buono e giusto è stato compiuto e distribuito nella relazione. Si tratta cioè di riconoscere l’esistenza di aspetti positivi e si tratta di tener viva la fiducia nel valore del legame e in se stessi come degni di legame. Come dire, se quel legame è fallito, è valsa la pena di viverlo e vale la pena nella vita dare cura ed energia ai legami.


In particolare è la relazione tra le generazioni (con i figli) che fa da cartina di tornasole nel segnalare come viene affrontata la fine della relazione di coppia e cosa viene portato in salvo. La messa in salvo del legame non è un processo di conservazione, ma è un vero e proprio lavoro



psichico di ricostruzione e “revisione” delle vicende del rapporto di coppia. E’ dunque nella fase “liminale” tra la frattura del legame e la conferma del suo valore che si gioca gran parte del destino della transizione.





CONCLUSIONI



La società italiana sta vivendo una fase di grande cambiamento. La politica, le istituzioni, il sistema di welfare segnano invece il passo. C’è stata una grave incapacità ed un grave ritardo nella lettura e nell’interpretazione delle trasformazioni in atto da parte di chi ha avuto negli ultimi decenni responsabilità pubbliche e di governo.


Ci troviamo ora di fronte a nodi problematici associati a fenomeni già presenti da tempo, che si stanno cronicizzando.


L’instabilità coniugale porta ad un rilevante aumento di bambini che sperimentano la rottura coniugale dei genitori. Le conseguenze negative sui figli sono ben documentate nella letteratura scientifica degli altri paesi dove il fenomeno è da tempo più diffuso. Le specificità culturali del nostro paese, ed in particolare il forte legame tra genitori e figli, a cui corrisponde un forte investimento affettivo e strumentale, potrebbe rendere più doloroso il fallimento coniugale e più conflittuale la risoluzione tra coniugi con bambini. Finora l’incidenza delle rotture è stata bassa e soprattutto limitata alle classi più benestanti. Le dinamiche più recenti rendono quindi lo scenario più articolato e potenzialmente più problematico. C’è poi la questione delle famiglie monogenitore, anch’esse in continua crescita. Particolarmente difficile è la condizione delle donne sole con figli. Se c’è un problema per le famiglie italiane, di pochi aiuti economici, scarsi servizi e difficoltà di conciliazione, tutto ciò è fortemente accentuato per chi ha figli e non può contare sull’altro coniuge.


Forse, allora, c’è qualcosa di più profondo alla base della nostra crisi demografica, delle difficoltà delle famiglie, della rigidità nel ricambio generazionale, della disaffezione verso la politica. Se davvero è così, non basta un nuovo welfare per uscire dal nostro malessere generalizzato (demografico, sociale, economico e politico). Serve una nuova idea di Italia. Ci siamo illusi che potesse nascere dopo tangentopoli, e qualcuno si è illuso che potesse rinnovarla profondamente Silvio Berlusconi. Non è successo. Ora siamo tutti orfani di un’Italia che vorremmo e che non riusciamo a darci. Ed è forse anche per questo che facciamo pochi figli e che i giovani sono riluttanti a diventare adulti




BIBLIOGRAFIA

- Andolfi, M., La Crisi della Coppia. Una prospettiva sistemico-relazionale. Raffaello Cortina Editore, 2000.
- Boszormenyi-Nagy, I., Spark, G. M., Lealtà Invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale. Astrolabio, 1988.
- Bowen, M., Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare. Astrolabio, 1979.
- De Leo, G., Quadrio, A., Manuale di Psicologia Giuridica. Edizione Universitaria di Lettere Economia Diritto. Milano 1995.


- Fruggeri, L., Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psico-sociali. Carocci editore, 2007
- Scabini, E., Cigoli, V., Il familiare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, 2000.