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La relazione figlia-madre nelle prime teorie psicoanalitiche. 3 - Donald Winnicott

1. Donald Winnicott



Winnicott – che non ebbe figli suoi e che sembra accostarsi alla riflessione teorica sull’epoca preedipica dal vertice di osservazione di un bambino abbastanza felice – porta la madre dentro al principio di realtà. La sua è una madre “fisica”, tendenzialmente benigna. Il suo pensiero esprime fiducia e speranza nel mondo esterno, in ciò che costituisce l’esperienza condivisa: non conosce la drammaticità e il dolore che Melanie Klein pone alla base della relazione con la madre.





La sua “madre sufficientemente buona” non è una teorizzazione astratta. E’ piuttosto il riferimento a un campo di esperienza non definibile con esattezza, ma appartenente alla dimensione del ben conosciuto e del naturale.



Le basi della salute mentale dell’individuo (…) vengono poste da queste cure materne, che passano quasi inosservate quando tutto va bene e che sono una continuazione delle provvidenze fisiologiche caratterizzanti lo stato prenatale (…). Le madri che hanno avuto parecchi figli diventano così abili nella “tecnica” del maternage che fanno tutte le cose giuste al momento giusto. [1]



I primi stadi dell’esistenza del bambino e le cure materne si appartengono reciprocamente (“l’infante e l’assistenza materna formano un tutto unico” [2] , “il potenziale ereditato da un bambino non può diventare un bambino se non è congiunto alla cura materna” [3] ) cosicché la sua teoria del rapporto infante-genitore riguarda:



(per una metà) l’itinerario dell’infante dall’assoluta dipendenza, attraverso una dipendenza relativa, fino all’indipendenza e, parallelamente, l’itinerario dell’infante dal principio del piacere al principio di realtà e dall’autoerotismo alle relazioni oggettuali.


L’altra metà della teoria (…) riguarda le cure materne, vale a dire le qualità e le modificazioni nella madre che rispondono all’evolversi dei bisogni specifici dell’infante al quale essa si rivolge. [4]



L’essenza dell’esperienza del bambino sta dunque nella dipendenza dalle cure materne che forniscono un ambiente che sostiene e contiene, entro cui il piccolo può sperimentare il proprio sviluppo. Tale funzione è naturale nelle madri grazie alla loro “preoccupazione materna primaria” basata sull’empatia.



(La madre) capisce che il bambino deve essere preso in braccio o messo giù, lasciato stare o girato (...) sa che l’esperienza essenziale è la più semplice di tutte, quella basata sul contatto senza azione, in cui ci si può sentire una cosa sola tra due persone che sono effettivamente due e non una (…). Questa è la base di ciò che diventa gradualmente per il bambino l’esperienza di sé. [5]



Questi aspetti essenziali e facilitanti offerti dalla madre (che comprendono anche la capacità materna di separarsi a poco a poco dal figlio) rendono possibile il graduale emergere nel bambino dell’esperienza del Sé e l’acquisizione della consapevolezza dell’esistenza separata della madre.


All’interno di questo percorso evolutivo, nella fase della relazione duale tra il bambino e la madre, diventa cruciale l’acquisizione, da parte del bambino, della “capacità di preoccuparsi” , termine con cui Winnicott indica “l’aspetto positivo (…) del senso di colpa (…) il fatto che l’individuo ‘si prende cura o prova apprensione’, e sente e accetta la responsabilità”. [6]


Winnicott introduce qui l’importante distinzione tra “madre-oggetto” (“il bersaglio dell’esperienza eccitata, sostenuta dalla tensione istintuale allo stato grezzo”) e “madre ambiente”, colei che “riceve tutto quanto è definibile come affetto e come sentire condiviso”. [7]


Contemporaneamente all’emergere della capacità di preoccuparsi, le “due madri” vanno gradualmente riunendosi all’interno della mente infantile. Il bambino riesce cioè a sperimentare l’ambivalenza tra l’angoscia di perdere la madre-oggetto, attaccata dalle sue pulsioni istintuali sempre più vivacemente vissute, e la fiducia di dare e di riparare l’oggetto, assicurata dalla presenza attendibile della madre-ambiente.



In circostanze favorevoli la madre, con il continuare ad essere viva e disponibile, rappresenta tanto la madre che riceve in tutta la loro pienezza le pulsioni dell’Id del neonato, quanto la madre che può essere amata come persona e verso la quale si può fare un atto riparativo. In questo modo l’angoscia che accompagna le pulsioni dell’Id e la fantasia di queste




pulsioni diventa tollerabile per il lattante, che può allora sperimentare il senso di colpa o può contenerlo in attesa dell’occasione di compiere un atto riparativo (…).


Negli stadi iniziali dello sviluppo, se non c’è una figura materna attendibile a ricevere il gesto riparativo, il senso di colpa diventa intollerabile e la preoccupazione non può essere sentita. Il fallimento dell’atto riparativo porta ad una perdita della capacità di preoccuparsi, e alla sua sostituzione con forme primitive di senso di colpa e di angoscia. [8]



Anche Winnicott introduce il concetto di solitudine come corollario del percorso evolutivo infantile. La sua è però una solitudine ben diversa da quella della Klein: non un sentimento soverchiante, ma una capacità da acquisire, quasi un equivalente della maturità emotiva.


La “capacità di essere solo in presenza della madre” [9] è un concetto quasi paradossale che rimanda all’essere in rapporto con se stessi, a un’emozione positiva di esistere, perché sostenuti da una madre affidabile che può essere messa tra parentesi senza il rischio di perderla.



“Io sono solo” (…) implica (…) la consapevolezza che il bambino ha della continuità dell’esistenza di una madre attendibile, la cui attendibilità rende possibile al bambino di essere solo e di godere il proprio esser solo, per un tempo limitato. [10]



Questa esperienza rappresenta un primo passo verso la vera autonomia dell’età adulta, che comporta la capacità di ritirarsi senza perdere l’identificazione con ciò da cui ci si è distaccati.



La capacità di essere solo dipende dall’esistenza di un oggetto buono nella realtà psichica dell’individuo (…). Il rapporto dell’individuo con i propri oggetti interni, unito alla fiducia nelle relazioni interne, offre di per sé una sufficiente pienezza di vita, così che temporaneamente egli è in grado di riposare contento anche in assenza di oggetti e di stimoli esterni. [11]



Winnicott non parla nei suoi scritti degli aspetti di negatività e di dolore che ogni processo evolutivo “normale” comporta. La sua identificazione priva di ambivalenze con una madre buona lo porta a formulare una teoria sostanzialmente ottimistica dello sviluppo emozionale. La nozione di “madre” che prende vita nel suo pensiero percorre ben altre vie interpretative di quella della Klein. Né troviamo traccia, nelle sue opere, dell’attaccamento ambivalente della bambina alla madre e dei differenti percorsi dello sviluppo sessuale dei maschi e delle femmine.


Il suo orientamento lo porta invece a riflettere sulla differenza tra i sessi a partire dalla questione della dipendenza (di ogni essere umano, maschio o femmina che sia) dalla donna-madre.



Ciascuno all’inizio era dipendente da una donna (…). Donna è la madre ai primi stadi della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, e della quale non si ha consapevolezza (…).


Nel rapporto con la Donna, le donne devono identificarsi con lei. Per ogni donna, vi sono sempre tre donne: la bambina, la madre, la madre della madre.


Nei miti appaiono costantemente tre generazioni di donne, oppure tre donne con funzioni diverse. Che abbia bambini o che non ne abbia, la donna si trova in questa sequenza senza fine; è al tempo stesso bambina, madre e nonna, o madre, fanciulla e bambina (…). Ella comincia da tre, mentre l’uomo comincia con l’urgenza di essere uno (…). Essere “uno” significa essere solo. [12]



Con un’altra delle sue riflessioni paradossali, Winnicott ci parla qui di un rapporto madre-figlia più imbricato di quello che lega la madre al figlio maschio, di un percorso di costruzione dell’identità forse più difficile, per il suo svolgersi in una sequenza priva di vere e proprie cesure. Ci fa intravedere bambine e donne che sperimentano se stesse come persone meno separate dei maschi, dotate di confini identitari più permeabili, forse meno sole ma anche più invischiate in giochi di rispecchiamento che rimbalzano tra le generazioni.

Livia Botta ( www.liviabotta.it )



[1] D. Winnicott (1961), tr. it. La teoria del rapporto infante-genitore, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1970, p.57 e 60.


[2] Ibid., p. 44.


[3] Ibid., p. 45.


[4] Ibid., p. 48.


[5] D. Winnicott (1966), tr. it. La madre normalmente devota, in I bambini e le loro madri, Cortina, Milano 1987, pp. 2 e 4.


[6] D. Winnicott (1962), tr. it. Lo sviluppo della capacità di preoccuparsi, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1970, p. 89.


[7] Ibid., p. 93.


[8] Ibid., p. 101.


[9] D. Winnicott (1957), tr.it. La capacità di essere solo, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1970, p.31.


[10] Ibid., p. 35.


[11] Ibid., p. 33.


[12] D. Winnicott (1964), tr. it. Questo femminismo, in Dal luogo delle origini, Cortina, Milano 1990, p. 203.