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La relazione figlia-madre nelle prime teorie psicoanalitiche. 2 - Melanie Klein


1.
Melanie Klein



Sarà Melanie Klein a mettere al centro dello spazio analitico e della propria costruzione teorica la relazione di amore/odio, di distruzione/restituzione tra il bambino/bambina preedipici e le loro madri. Tutta la sua teorizzazione ruota attorno alla rappresentazione di queste prime tensioni violente e contrapposte, che non riguardano le relazioni reali, ma piuttosto formazioni fantasmatiche che operano nell’inconscio e che vengono proiettate all’esterno sulla figura materna.



Nei primissimi stadi l’amore e la comprensione si esprimono nel modo in cui la madre accudisce il suo bambino e portano a una certa identità inconscia basata sul fatto che l’inconscio della madre e quello del bambino sono in stretta relazione l’uno con l’altro. La sensazione di sentirsi capito che ne deriva per il bambino è alla base della prima fondamentale



relazione della sua vita: la relazione con la madre. Allo stesso tempo frustrazione, disagio e dolore (…) vengono sperimentati come persecuzione ed entrano anche a far parte dei suoi sentimenti verso la madre, perché nei primi mesi ella rappresenta per lui la totalità del mondo esterno; per cui tanto il bene che il male arrivano alla sua mente come provenienti da lei e questo conduce a un duplice atteggiamento verso la madre persino nelle migliori condizioni possibili. Tanto la capacità di amore come il sentimento di persecuzione hanno delle profonde radici nei primi processi mentali del bambino e si concentrano in primo luogo nella madre. [1]



Nel proprio mondo interno, luogo dei fantasmi infantili più arcaici, il bambino/bambina apprende progressivamente a contenere e integrare l’amore e l’odio per la madre, i desideri fusionali e le spinte distruttive, la necessità della separazione, l’invidia e la gratitudine, così da superare almeno parzialmente la scissione degli aspetti buoni e cattivi dell’oggetto e dei forti impulsi avvertiti dentro di sé.


Tale sviluppo è visto come il risultato dell’interazione tra la dotazione innata del bambino, che assume un ruolo centrale, e le caratteristiche dell’ambiente esterno (la madre).



Un atteggiamento affettuoso da parte della madre contribuisce in parte al successo di questo processo (…). Il mondo interno del bambino arriva a contenere oggetti e sentimenti prevalentemente buoni ed egli sente che questi oggetti buoni rispondono al suo amore. Tutto ciò contribuisce a formare una personalità stabile. [2]



Tuttavia “molto dipende, nel bambino, dal modo in cui egli interpreta e assimila; e questo a sua volta dipende in gran parte dalla forza con la quale operano in lui gli impulsi distruttivi e le ansie persecutorie e depressive”. [3]



Tra i fattori interni assume particolare importanza l’invidia, un moto che insorge fin dalla primissima infanzia, diretto a quell’oggetto vitale che è il seno materno.



L’invidia è un sentimento di rabbia perché un’altra persona possiede qualcosa che desideriamo. L’impulso invidioso mira a portarla via o a danneggiarla. Inoltre l’invidia implica un rapporto con una sola persona ed è riconducibile al primo esclusivo rapporto con la madre. L’invidia cerca non solo di derubare la madre, ma anche di mettere (…) le parti cattive del Sé nella madre (…) allo scopo di danneggiarla e di distruggerla. Nel senso più profondo ciò significa distruggere la sua creatività. [4]



L’invidia dà luogo ad un movimento estremamente complesso di sentimenti buoni e cattivi, di proiezioni e introiezioni, che si diversifica parzialmente a seconda del sesso del bambino.


La femmina possiede fin dalla nascita la percezione del proprio corpo cavo, e la sua angoscia dominante ha a che vedere soprattutto con questo spazio interno. Essa sa inconsciamente che il suo corpo contiene bambini allo stato potenziale, ma ha anche “ seri dubbi sulla sua futura capacità di generarli. Essa si sente sotto molti aspetti in svantaggio rispetto a sua madre”. [5]


Sviluppa dunque un interesse carico di angoscia e di conflitto per l’interno del corpo materno. Invidia la madre per ciò che possiede e per ciò che è. Le immagini dei “contenuti” del suo corpo - la capacità generativa, il pene del padre, gli altri bambini, l’urina, le feci, il latte – suscitano in lei desideri di penetrazione e depredazione. Queste fantasie distruttive generano però senso di colpa e fantasie di essere a sua volta depredata e distrutta dalla madre.


D’altro canto la madre è anche l’unico suo oggetto d’amore, colei che le dona protezione e cura: pulsioni aggressive e libidiche convergono quindi verso la figura materna, producendo un grado estremamente elevato di ambivalenza.


Nella rivalità edipica, secondo la Klein, l’invidia della figlia per la madre non è causata dall’amore verso il padre, ma dal fatto che il padre viene fantasticato come un’appendice della madre, che la bambina desidera portarle via.



La gelosia prende così (…) il posto dell’invidia e la madre diventa la rivale più importante (…). La gelosia diventa molto più accettabile e fa nascere minor senso di colpa dell’invidia primaria che distrugge l’oggetto buono. [6]



Ma se il precedente rapporto con la madre è stato troppo carico d’invidia, essa potrà prendere la forma di una rivalità senza tregua che si estenderà dalla madre a tutto il mondo femminile, per cui “in futuro (…) ogni successo nei suoi rapporti con gli uomini diventerà una vittoria riportata su un’altra donna”. [7]


La drammaticità del conflitto con la madre non può essere sostenuta a lungo. La bambina tenderà a coprire con un velo di rimozione tutti i desideri distruttivi e i sentimenti ostili, respingendoli verso le zone più profonde dell’inconscio. Ma accanto alla rimozione si aprirà un processo che durerà per tutta la vita: il tentativo di elaborare i sentimenti ostili contro la madre e i genitori congiunti. Raggiungere una completa integrazione sarà tuttavia difficile, o forse impossibile: le angosce depressive e persecutorie non saranno mai del tutto superate e potranno riapparire temporaneamente sotto pressioni interne ed esterne; l’esistenza della “madre interna” come entità integrata rimarrà sempre a rischio, in bilico tra il retrocedere verso la scissione (madre buona/madre cattiva) o il restare immobile in quanto oggetto idealizzato.


Il processo di integrazione e di crescita espone a vissuti di profonda e incolmabile solitudine, a quel “senso di essere solo indipendentemente dalle circostanze esterne, di sentirsi privi di compagnia anche se si è circondati da amici e da affetto” [8] , che “deriva dal sentimento depressivo di aver subito una perdita irreparabile”. [9]


Nel saggio “Sul senso di solitudine” , alla cui rielaborazione lavorò fino ai suoi ultimi giorni, la Klein ne individua la genesi in una sorta di impasto tra “la nostalgia per una comprensione che avviene senza l’uso di parole – in ultima analisi il primissimo rapporto con la madre” e l’impossibilità di un’accettazione completa delle proprie emozioni, fantasie e angosce, che “non può far scomparire il sentimento che alcune parti del sé non siano disponibili, perché (…) hanno subito un processo di scissione (…) e vengono proiettate in altre persone”. [10]


Così come non è possibile giungere ad una completa integrazione tra impulsi distruttivi e impulsi d’amore, allo stesso modo i fattori di sviluppo potranno mitigare il senso di solitudine, ma senza giungere a eliminarlo completamente.



Sebbene il senso di solitudine possa essere diminuito o accresciuto per influenza di fattori esterni, esso non può venir mai completamente eliminato, perché lo stimolo ad effettuare l’integrazione, con la sua intrinseca sofferenza, ha la sua origine in conflitti interni che conservano inalterata la loro forza per tutta la vita. [11]



Le teorizzazioni kleiniane (la preminenza assoluta dello psichico sul reale, l’interpretazione drammatica e carica di dolore del precocissimo mondo interno del bambino) hanno suscitato molte polemiche all’interno della comunità psicoanalitica. Né ha giovato alla Klein la travagliata e dolorosa relazione con la figlia Melitta, agita sulla scena pubblica della Società psicoanalitica britannica [12] .


E’ tuttavia innegabile che, per quanto riguarda la relazione figlia-madre, Melanie Klein suggerisca ipotesi interpretative di grande potenza. Le sue rappresentazioni di affetti quali l’invidia, la gelosia, l’avidità, la rabbia, i tentativi di riparazione, il senso di solitudine rimandano a qualcosa di molto vicino all’esperienza femminile adulta e al rapporto madre-figlia: un rapporto di cui la Klein ci ricorda la dimensione fortemente ambivalente e il perdurare come “luogo interno” mai pacificato né completamente pacificabile. Essa ci insegna inoltre a diffidare da ogni operazione di celebrazione della madre, e a riconoscere nell’idealizzazione del rapporto col materno un possibile meccanismo di difesa, che consente a chi lo agisce di mettersi al riparo da sentimenti invidiosi e distruttivi.

Livia Botta ( www.liviabotta.it )




[1] M. Klein (1959), tr. it. Il nostro mondo adulto e le sue radici nell’infanzia, in Il nostro mondo adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze 1972, pp. 9-10.


[2] Ibid., pp. 14-15.


[3] Ibid., p. 23.


[4] M. Klein (1957), tr. it. Invidia e gratitudine, Martinelli, Firenze 1969, p. 17-18.


[5] M. Klein (1945), tr.it. Il complesso edipico alla luce delle angosce primitive, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, p. 401.


[6] Ibid., p.50.


[7] Ibid., p. 54.


[8] M. Klein (1960), tr. it. Sul senso di solitudine, in Il nostro mondo adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze 1972, p. 139.


[9] Ibid., p. 141.


[10] Ibid., p. 144.


[11] Ibid., p. 162.


[12] In una sorta di rispecchiamento tra l’organizzazione del pensiero e le vicende della vita, la relazione conflittuale di Melanie Klein con la figlia Melitta, e per contro quella fortemente idealizzata con la madre Libussa, rimandano a rapporti madre-figlia all’insegna del conflitto e della scissione e ci parlano di sentimenti assai poco integrati.