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Famiglia e Disabilità

Nel ciclo vitale della famiglia la nascita di un figlio disabile rappresenta un evento paranormativo, è come tale si connota come evento critico, in cui le precedenti modalità di funzionamento del sistema risultano inadeguate. Il sistema dovrà riorganizzarsi ad un livello sia strutturale che relazionale ed emotivo; di fondamentale importanza risulta, quindi, una flessibilità a cambiare in modo congruo in base al compito evolutivo a cui deve rispondere.


Ad un livello emotivo la nascita di un figlio disabile costituisce una ferita narcisistica per i genitori rispetto l’immagine del bambino fantasmatico creata nel periodo della gestazione. Durante la gestazione si sviluppano fantasie sul nascituro, che permettono di condurre il mondo fantastico dei genitori verso un pensiero e una rappresentazione dell’immagine del figlio in arrivo così da prepararsi a dare uno spazio mentale e materiale al nascituro. È innegabile che tale nascita porta con sé una forte delusione, quasi un trauma che deve essere elaborato per il senso di perdita del figlio immaginato, affrontando delle fasi:


  • Fase iniziale di shock. La coppia genitoriale si trova ad affrontare una situazione di stordimento, di confusione, di incredulità, in cui è preminente il distacco dalla realtà. Le emozioni si alternano tra rifiuto, dolore, rabbia e sensi di colpa.
  • Fase del dolore e della depressione. L’handicap rappresenta per il genitore la morte del figlio ideale ed è un bene che venga espresso e sentito il dolore di perdita senza negarselo, perché rappresenta il periodo di transizione per adattare alla realtà i sogni e le fantasie che avevano sul figlio perfetto.
  • Fase della lotta contro la malattia e la ricerca dell’intervento compensatorio, miracolistico, che possa annullare la diagnosi.
  • Fase del dolore pervasivo, esteso ad ogni esperienza di vita, in cui vi è un disinvestimento sull’illusione della guarigione.
  • Fase dell’adeguamento al problema ed elaborazione di un progetto di vita.
  • Al buon superamento di queste fasi si ha un atteggiamento di accettazione dell’handicap, come presupposto per riconoscere e accettare il figlio per quello che è, riuscendo a vedere i limiti e le risorse. Non sempre tali fasi vengono superate adeguatamente e di conseguenza si sviluppano delle reazioni disadattive : il meccanismo della colpevolizzazione, riferita a se stessi o nei confronti di altri (ad es. medici); è un meccanismo che tende a cristallizzare la situazione e a non sfociare in atteggiamenti adattivi e progettuali. L’atteggiamento di rifiuto dei genitori può manifestarsi in varie sfumature; in modo esplicito oppure mascherato, può essere caratterizzato da un senso di vergogna che può coinvolgere l’intero nucleo; si può trasformare a posteriori con un atteggiamento iperprotettivo, dettato da sensi di colpa per il rifiuto della disabilità, che spingono i genitori alla rinuncia e alla totale dedizione, impedendo al figlio disabile di crescere; si può mascherare con un accanimento addestrativo su particolari abilità del figlio; si possono cogliere richieste inadeguate rispetto le capacità del figlio oppure trattarlo da non abile non riuscendo a cogliere i suoi punti di forza. Il sistema familiare può manifestare un atteggiamento transitorio di negazione dell’handicap, minimizzando il danno oppure negando la necessità di misure terapeutiche e riabilitative.


    Inoltre è da considerare come la diversa natura dell’handicap ha un risvolto sul vissuto emotivo dei genitori con la nascita del figlio. Nelle disabilità con danni cromosomici o genetici , la coppia genitoriale subisce una ferita narcisistica profonda, perché vengono colpiti nel loro senso di inadeguatezza, di “guasto” della loro generatività. A differenza delle disabilità con danni neurologici, in cui il fattore causante può essere annoverato ad un trauma da parto, dove la coppia genitoriale può imputare la responsabilità del danno ad inadeguatezze della struttura sanitaria.


    Dalla letteratura vengono individuati i fattori che contribuiscono a creare un nuovo equilibrio della famiglia e che permettono di mantenere livelli soddisfacenti di qualità della vita; dipende molto da “ come risponde” la famiglia all’evento disabilità e alla sua elaborazione. Tali fattori protettivi sono:


    1.La Coesione di coppia e la coesione familiare.


    2.Le caratteristiche personali dei membri adulti, come possedere delle efficaci strategie cognitive per il fronteggiamento delle difficoltà e la loro risoluzione. Riformulare l’evento individuando aspetti positivi. Riformulare un progetto di vita, il cui si sviluppa dalla condivisione che i membri della famiglia hanno dei valori familiari, degli scopi, delle priorità, delle aspettative e delle credenze. Sentire di poter esercitare un controllo sugli eventi. Avere un locus of control interno. Saper attribuire nuovi significati. Strategie emozionali finalizzate al saper esprimere le proprie emozioni, accogliere i bisogni degli altri membri della famiglia. Strategie relazionali finalizzate alla cooperazione, a potenziare il proprio sviluppo personale, a mantenere soddisfacenti livelli di autonomia, a ritagliarsi del tempo per i propri hobby e per la propria vita sociale.


    3.Un adeguato senso di autoefficacia genitoriale, ossia la percezione che il genitore ha di se stesso di saper svolgere il proprio compito.


    4.Usufruire di una rete di supporto intrafamiliare , che sia di sostegno emotivo-affettivo alla coppia genitoriale, per condividere l’evento e i maggiori carichi di accudimento.


    5.Attivare un supporto dalla rete sociale. Attivare i servizi sociali per ricevere sostegno assistenziale-riabilitativo e terapeutico; Integrarsi e partecipare attivamente nella comunità di appartenenza come ad esempio promuovere attività associative che danno un senso di appartenenza e di lotta per i diritti dei loro figli e che crea solidarietà è un grosso sostegno ed è indice di resilienza.


    Per concludere vorrei fare un excursus di come si sia evoluto il concetto di disabilità nel tempo e di quanto possa aver inciso la rappresentazione o lo schema esplicativo sulla disabilità. I primi studi sulla famiglia con handicap si sono svolti dalla fine degli anni cinquanta, in quanto come afferma Dell’Aglio (1994) precedentemente era frequente l’istituzionalizzazione del disabile. Nello specifico con la legge n. 118 del 1971 si parla di integrazione del bambino disabile nelle classi dei normodotati. Il disabile viene riaccolto in famiglia e nella comunità. Negli anni ’80 nasce il Sad, il servizio di assistenza domiciliare, le strutture diurne e le comunità alloggio; il ricovero in istituto viene sostituito dai centri residenziali. La legge quadro sull’handicap n.104 del 1992 relativa all’assistenza, all’integrazione sociale e ai diritti delle persone con handicap è un’ulteriore sforzo verso l’integrazione del disabile nel tessuto sociale. Ha attribuito un ruolo fondamentale al recupero, non solo funzionale ma anche sociale della persona con handicap. Recupero che vede, come perno, l’integrazione nella famiglia e nella scuola, ma anche e soprattutto l’integrazione nel lavoro. Si sviluppa il concetto di riabilitazione come processo attraverso cui si favorisce alla persona disabile il miglioramento della qualità di vita sul piano fisico, psichico, funzionale, sociale ed emozionale; favorendo la partecipazione attiva del disabile alla società in base alle sue capacità. Dagli studi sulla famiglia con handicap che si sono svolti dalla fine degli anni cinquanta fino agli anni ottanta, l’assunto di base era molto “ad imbuto”, ossia focalizzato esclusivamente a cogliere gli aspetti negativi e patologici che l’handicap apportava alla famiglia; fondamentalmente perché veniva letto come evento negativo, un fattore che determinava il blocco del ciclo vitale della famiglia e della coppia; dando centralità a concetti quali il dolore, il lutto, la depressione specie della madre, i rischi psicopatologici dei fratelli del disabile, e solo negli ultimi vent’anni i ricercatori e clinici hanno focalizzato gli studi sulle risorse e sui processi che favoriscono l’adattamento, parlando di resilienza familiare, di coping, di fattori protettivi. Questi cambiamenti sociali, culturali, legislativi hanno favorito a rivisitare la visione di disabilità, in cui il deficit è un dato oggettivo, invariabile, ma la difficoltà che questo deficit produce, può aumentare, diminuire o scomparire in base allo schema esplicativo che gli operatori del settore e i familiari hanno della disabilità stessa. Si delineano così il binomio di disabilità come vincolo e al contempo come possibilità.





    Bibliografia


    Di Furia D.P., F. Mastrangelo, “Famiglia ed handicap: l’intervento psicoeducativo” FrancoAngeli, 1998


    Govigli G., L.Mastropaolo, “Handicap: vincolo e possibilità”. Terapia familiare n.34, Nov.1990


    Miotto D., “Polinrete. Il lavoro in rete tra servizi per persone disabili”, pag.159, FrancoAngeli,2007


    Pavone M., “Famiglia e progetto di vita. Crescere un figlio disabile dalla nascita alla vita adulta”, pag. 53, Erickson, 2009


    Sorrentino, A. M. "La famiglia: considerazioni terapeutiche". In AA. VV. "Figli per sempre" Carocci Faber Editore, Roma


    Zanobini M., "Psic ologia dell’handicap e della riabilitazione”, pag.211, FrancoAngeli, 1984