Della paura e della contraddizione - saggio
Liminateatri, ottobre 2010
Della paura e della contraddizione.
di Alfio Petrini
Rileggo uno scritto di Valentina Valentini, breve ma pregnante, pubblicato su Reti di Dedalus nel 2008 . Dopo aver seguito alcuni incontri tra artisti e critici dell’ Uovo critico e aver seguito la rassegna Teatri di Vetro, la Valentini si chiede a cosa serva fare accumuli e ricognizioni “senza la possibilità di tracciare una cartografia e senza quindi fissare dei punti cardinali sulle mappe” del fare teatro. E’ evidente che per rimettere in moto il teatro sarebbe necessario che gli artisti fossero come solitamente non sono: parziali e tendenziosi. Non possono esserci proposte vive e seducenti, senza il presupposto della parzialità e della tendenziosità. Anche se non basta.
“Possibile - prosegue Valentini - che le giovani generazioni si rivestano e si coprano con le maschere vuote dell’estetica decostruttiva, svuotata delle tensioni più profonde delle avanguardie? Dov’è la crepa attraverso la quale chi rilegge Fassbinder, Pasolini, Medea, infila se stesso e lacera la cornice che si è creato? Ci si nasconde dietro i cliché estetici: si ha timore di raccontare una storia, pur volendo e avendo in mente una storia da raccontare, si ha paura del teatro naturalistico e per sfuggire al mimetico si cade nel dissociato, per sfuggire al consequenziale si sceglie l’iterativo, per mancanza di addestramento si diventa performativi, per non saper dominare la propria vocalità, respiro, si mandano le voci off, per paura di essere banali (concreti) si attinge ai concetti astratti, per paura del sentimentale si diventa surgelati, per timore dell’unità si ricorre ai frammenti, per essere in sintonia con la catastrofe senza qualità non si tenta il tragico – eppure il dolore esiste, non siamo atrofizzati”.
Al centro del teatro c’è la stasi e al centro della stasi vive la paura. Quando penso alla mancanza di parzialità e tendenziosità, penso alla paura di rischiare, di non piacere più, di rimanere fuori dal giro distributivo a dura impronta dirigistica. E penso anche all’avanguardia depotenziata del postmoderno che, avendo paura dei contenuti espliciti, pratica processi di formalizzazione con risultati criptici, algidi e non digeribili. Il rifiuto (ideologico) del significato esplicito non è un’estetica, non è un abito dello spettacolo, ma una condizione particolare della creazione artistica generata dalla necessità che l’artista ha di esprimere una cosa molto particolare, che non può essere detta, descritta, spiegata, perché è indicibile, invisibile o impalpabile. Per esprimere significati nascosti occorre pertanto una tecnica personalizzata - ardua e complessa -, che entri in contatto con il pensiero del corpo e con il comportamento poetico dell’artista, se non si vuole che la carezza dell’enigma diventi un pugno in faccia. In altri termini, l’utilizzo della comunicazione chiara o della comunicazione oscura , oppure l’intreccio della comunicazione chiara con la comunicazione oscura , è vera sapienza quando avviene, su base sensibile, secondo la teoria e la prassi della necessità artistica .
Le avanguardie storiche ci hanno fatto progredire, il realismo socialista ci ha fatto regredire, gli anni sessanta ci hanno fatto fare di nuovo un passo avanti, ma è evidente che le avanguardie – aggiunge la Valentini - “avevano come obiettivo comune non quello di desensorializzare, quanto di vivificare la realtà, togliere le scorie per mettere a nudo il cuore pulsante. L’estetica dell’avanguardia, prima e seconda, se cancellava le storie, amplificava i corpi. Se detronizzava la parola, la semantica, il significato, esplorava il suono, la phoné, inventava una nuova lingua. Se spezzava la continuità, immetteva il ritmo, la musicalità, lo sfiancamento, il montaggio a trame grosse, la polifonia”. In conclusione: “Come prendere coraggio per nuotare fuori dalle barriere protettive di una tradizione postmoderna priva di forza”?
Dicevo della paura di rischiare, di deludere, di sbagliare. Ce ne sono altre. La con-fusione tra male e bene, la negazione del male che sta dentro di noi, il rifiuto del pensiero del corpo e del movimento della creazione che va dal materiale del corpo all’immateriale dell’anima, spingono verso progetti tranquillizzanti e rassicuranti, incentrati sulla separazione tra male e bene, sul male quotidiano che può essere cambiato cambiando il mondo, sul progetto di cambiare gli altri che sono cattivi mentre noi siamo sempre buoni. E poi, la paura del corpo: terribile e decisiva. Quell’orrore del corpo e del sesso che impedì a Benjamin, il più grande letterato di tutti i tempi, di diventare il più grande pensatore del secolo, come sostiene Franco Rella: lo stesso orrore che impedisce a tanti attori, e quindi a tanti gruppi, di praticare i processi organici , i quali come si sa hanno un effetto destabilizzante, creano caos e disordine, sottraendo sicurezza e tranquillità. E di rimbalzo costituiscono un ostacolo alla pratica dell’eccesso, del barbarico, della deformazione, del paradosso, della musicalità drammaturgica, fondata sulla centralità delle azioni fisiche (ritmo ed energia) e operante nella prospettiva della pluralità del linguaggio.
Tuttavia, un uomo è un uomo non solo per le sue debolezze, ma anche per i suoi possibili atti di coraggio. Prendiamo Brecht. E’ vero che negò di essere stato comunista di fronte ad una Commissione d’inchiesta americana, ma è anche vero che ebbe il coraggio di mettersi in gioco, prefigurando un collegamento tra l’abiura galileiana della nuova scienza e l’abiura della sua fede comunista. Voglio dire che non mi ritraggo di fronte alla paura. Non mi scandalizzo. Solo chi ha paura può compiere un atto di coraggio, come ha fatto il grande drammaturgo tedesco: quindi coltivo qualche irragionevole speranza.
Se è vero che nella stasi decostruzionistica si rischia di fare una “frittata postmoderna”, è anche vero che nella stasi postdrammatica - che si manifesta soprattutto sul versante del teatro di narrazione -, si rischia di fare un ritorno alle origini televisive del teatro. Postmoderno o postdrammatico va bene ogni forma di teatro, ogni tendenza, ogni ricerca, a condizione che parli al cuore e alla mente dello spettatore. Come paradosso che contiene un brandello di verità, credo di poter dire che sulla carraia postmoderna si copia, su quella postdrammatica si racconta. La gelazione è un marchio del postdrammatico. La copia è un marchio del postmoderno. Si copia, ma non si plagia.
Perché si ha paura del plagio? Il plagio n on è copiatura, non è furto, non è una vergogna. E’ una possibilità, una necessità capace di sprigionare energie espressive. E’ un’arte. E’ passaggio, transito, attraversamento. E’ ricerca di nuovi sguardi, tensioni attive, visioni coinvolgenti. E’ l’arte della trasformazione. Ci vogliono coraggio e abilità non comuni per plagiare. Uomini abili e intelligenti, plurali e indivisibili, in possesso di una forte individualità. Pietro Citati nel bellissimo libro Il male assoluto , parlando di Dickens, scrive: “La realtà che conosceva o quella più vera che immaginava nei sogni o nelle deliranti passeggiate per Londra, era assurda, enigmatica, macchinosa: se un romanziere voleva essere realista, doveva rileggere le Mille e una notte, le favole, Shakespeare, moltiplicando le trovate romanzesche, le escogitazioni teatrali, le coincidenze, le rassomiglianze, le agnizioni... Tutta la sua opera è stata una trascrizione ininterrotta delle Mille e una notte , delle favole classiche e di Shakespeare”, badando ogni volta a imitare “la più feconda, macchinosa e ingegnosa delle narratrici: con i suoi libri nutriti di notte, d’ombre e di enigmi, cercò di avvincere l’attenzione del suo capriccioso Signore, del suo onnipotente Sultano – il Pubblico”. Copiare è facile, trasformare in modo originale e poetico è invece molto difficile. Questo si può dire, dunque, in estrema sintesi, di grandi scrittori come Eschilo, Sofocle, Shakespeare, Dostoewskij, Tolstoi, Poe o Dickens, solo per citarne alcuni: primo, che praticavano la scrittura come arte della trasformazione; secondo, che assumevano significati impliciti non come vestito della narrazione o dello spettacolo, ma come necessità artistica che scaturiva dalla consapevolezza dell’uomo come soglia , dove valori opposti, contrari e irriducibili producono senso attraverso l’aspetto razionale e sensibile; terzo, che cantavano il mistero dell’uomo perché erano poeti. Quanti sono oggi i poeti che cantano il mistero dell’uomo? Pochissimi. E così ci troviamo di fronte o alla chiacchiera assordante o alla stasi postmoderna algida di un’avanguardia depotenziata rispetto alle avanguardie storiche.
E’ vero, però, che anche in un uomo morto si nascondono fermenti di vita, quelli riguardanti la decomposizione del corpo. Ne consegue che ogni processo degenerativo può implicare il dono nascosto di un possibile processo rigenerativo.
Alcune domande tuttavia restano. Chi sarà capace di risvegliare la bella addormentata? Chi potrà fare la prima mossa per andare oltre lo stato di precarietà dilagante? Chi saprà offrire qualcosa di nuovo che possa durare nel tempo? Quale mondo ha preso il sopravvento dentro di noi? Quale mondo possiamo esprimere, se siamo pervasi dalla metafisica della luce? Quale energia possiamo bruciare, quale scintilla possiamo generare, se non siamo in grado di rischiare? Come sarà possibile andare oltre i nostri limiti e le nostre idee, se non attraversiamo con paura e con coraggio i luoghi umbratili di senso? Come sarà possibile dimenticare questo mondo, quando sarà necessario dimenticarlo, e versare lacrime dopo averlo dimenticato?
Siamo in piena deriva, ma i segnali non mancano. Una sola cosa è chiara. Nessun principe potrà salvarci, regalandoci la concretezza dell’utopia che ci manca. Nessuna lacrima. Nessuna tristezza. Qualunque perdita è buona per ricominciare daccapo, meno la perdita della parola, soprattutto quando scaturisce dall’azione fisica. A essa sono affidate dignità, sicurezza e integrità. Solo in condizione di non precarietà si può ascoltare la vita. Sogni, sacrifici, deliri, dunque, e impudicizie ci vogliono. Purché siano incontenibili e barbarici. Non penso a un teatro civile per un Paese incivile, ma a un teatro incivile per un Paese civile.