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MANIFESTO DELLA NUOVA DRAMMATURGIA

MANIFESTO
DELLA NUOVA DRAMMATURGIA
di Alfio Petrini (*) Nostos

Figura multiforme e misteriosa, Ulisse assomiglia a Ermes e Atena, le due divinità che lo proteggono. Ha una natura molteplice e versatile, come la loro. Può assumere tutte le forme, prendere tutte le strade, tendere verso tutte le direzioni in modo sinuoso e avvolgente. La sua mente è ricca di colori e di geroglifici, come un arazzo, un tappeto o un quadro. È artificiosa come un’opera d’arte, intrisa di magmi notturni e segnata da costellazioni luminose, velata e misteriosa come la rotta dei ladri, dei mercanti e degli amanti (Carlo Diano).

Ulisse è anche un soldato, ma non ama molto le armi e le battaglie. Gli altri guerrieri sognano emulazioni e trionfi. Egli predilige l’opera artigiana del muratore, del marinaio, del falegname e dell’artista, come se la sapienza artigiana si fosse raccolta nelle sue mani prodigiose. Più che pestare la terra del campo di battaglia naviga nel mare magnum delle invenzioni, macchinazioni, furti, mistificazioni, trasformazioni continue. Possiede l’arte della seduzione. Percepisce, vede, racconta e diventa una visione agli occhi degli osservatori. È sincero e mentitore, abile costruttore e ladro, ma la sua doppiezza non ha valenza morale, è piuttosto di natura artistica. Con questa ambiguità, radicata nella dualità della natura e della cultura umana, principio fondante di ogni verità che si nutre anche del valore opposto e contrario della non-verità , Ulisse rivela di essere l’artefice di una precisione superiore che lo pone accanto a Penelope come fratello gemello. Ulisse e Penelope sono fatti della stessa pasta. Sul cavallo e sulla tela costruiscono la loro fama, ma l’invenzione del cavallo di legno non va considerata il capolavoro di Ulisse. È una piccola cosa. È un’astuzia. Il vero capolavoro di quella mente labirintica e multiforme sta nella sua capacità di andare al di là dei limiti della realtà, oltre i confini del visibile e del palpabile , in quel regno di cui gli uomini conoscono solo poche cose. Ulisse è il navigatore dallo sguardo duro e dal cuore tenero, il cultore della ragione lucente e del pianto irrefrenabile, discendente dell’incantatore notturno chiamato Ermes: lo stregone, il traghettatore, il dio che possedeva la facoltà – non concessa ad Ulisse – di portare il sonno sugli occhi degli uomini. E quando il viaggiatore arriva sull’isola di Circe, trova una ingannatrice più potente di lui. Con la maga ha un rapporto così profondo che rischia di perdere, prima e unica volta, la memoria e il desiderio di tornare nella sua terra di origine. Ci vuole un anno perché i compagni lo convincano a riprendere il viaggio verso Itaca ed è con l’aiuto di Circe che egli riesce a superare le insidie dei mostri marini e l’incanto demoniaco della poesia. I vagabondaggi nel Mediterraneo, gli alti e bassi della fortuna, gli ostacoli da superare non sono altro che la materializzazione della forza che lo spinge a considerare concretamente l’ altro di sé e da sé. Procedendo come un naufrago, trova la sponda solo nel dio che sta dentro di lui. Lottando contro il dolore della mente e del corpo, è attraversato da così tanti orrori e stupori che alla fine può dire d’aver imparato l’arte del sopportare le sofferenze del mondo e l’arte di raccontarle, ogni volta in un modo diverso, ogni volta suscitando l’incanto degli ascoltatori, che hanno un solo desiderio, rimanere svegli per tutta la notte. E quando pensano di aver ascoltato l’ultima parola di quell’avventura, Ulisse introduce altri fatti, altri avvenimenti, provocando una nuova eccitazione degli animi. Maestro d’inganni e di frodi, il più grande artigiano della storia umana ha avuto alla sua scuola gli artisti più illustri di ogni epoca. Rimesso piede nella sua Itaca, dimostra di possedere anche la maestrìa del grande attore, camuffandosi da mendico e ostentando la necessità di un ventre insaziabile. Giura e spergiura come un fanfarone ubriaco. Racconta versioni sempre nuove della sua storia, sempre più vicine alla realtà, ma nessuno può escludere che i momenti di maggiore finzione coincidano con il massimo tasso di disvelamento delle cose più intime della sua esperienza umana. Come Ulisse, quanto cammino abbiamo fatto per tornare al punto da cui siamo partiti! Là dove le cose conservano la differenza , là dove la verità si mostra in un rapporto teso con la non-verità , si realizza il luogo della contesa e dell’ unità dei poli costitutivi della cultura umana. In questo palintos armonie valori opposti e contrari s’incontrano carichi di tensione, coesistono senza annullarsi e creano una realtà addizionata di natura poetica. Si tratta di uno spazio fatto di segni, dove la parola occupa una centralità riconosciuta, ma non esclusiva. Tutti i segni (verbali e non verbali) si connettono al symbolon che apre verso la oscura verità (Franco Rella). La mediazione tra i poli costitutivi della chiarezza e dell’oscurità genera il sapere, inteso come produzione di senso, sapienza, pensiero, conoscenza e abilità; ma anche come mistero, enigma, sensazione, percezione, sangue, sentimento, poesia. Il nostro sapere di noi include come suo centro non solo un nucleo di sapere cognitivo, ma anche un nucleo di sapere percettivo e comportamentale, messo a margine dal mercato materialistico, razionalistico ed edonistico della contemporaneità. Il piacere è morto. Il corpo non parla più. La patria dei produttori di nuove forme della comunicazione e dell’espressione artistica sta nel luogo da dove essi sono partiti. Per questo nostos non occorrono piedi, cavalli o aerei intercontinentali. Ci vogliono alcune rare facoltà, generalmente ignorate o sottovalutate. L’artista conta sulla forza della propria soggettività. Ha consapevolezza della vastità del mondo interiore, molto più esteso di questo esteriore. Si maschera per perdersi, si perde per ritrovarsi, si camuffa per disgelarsi. Per questo ha una capacità di estensione la più oggettiva possibile. L’artista non imita. Non doppia la realtà. Porta ad essere ciò che prima non c’era, lasciando che resti invisibile e impalpabile. E se è vero che l’arte è la pratica liberata dalla menzogna di essere la verità, tornare ai primordi significa fare come Ulisse che fugge da Circe e da Calipso per tornare là da dove era partito. E facendo come Ulisse, l’artista deve rallegrarsi della morte di Narciso per essere stato amante di belle immagini. La bellezza, se c’è, sta nell’acqua torbida e fluttuante, perciò impura, da cui è nata Afrodite: non in quella trasparente e immobile, di pura apparenza, in cui si specchiava Narciso. Si tratta di bellezza minacciata d’inconsistenza, così come d’inconsistenza è minacciato ogni progetto tendente a conciliare natura e cultura. La conciliazione tra comunicazione chiara e comunicazione oscura è senza dubbio apparente. Nel suo essere apparenza risiede la insuperabilità del dissidio. E non potrebbe essere altrimenti, perché la vera conciliabilità equivale a distruzione, cioè a morte sicura. E’ il destino delle forme gonfie di contenuti sociali e malate di buonismo, mimetismo, descrittivismo, psicologismo, musealismo della memoria, culturalismo, ideologismo. Non parlano al cuore e alla mente degli uomini: hanno bisogno della mediazione del critico: mettono in uno stato di soggezione lo spettatore.Il dissidio tra valore comunicato (memoria, ricordo, stile, esperienza, storia) e il valore percepito (sensazione, sentimento, impressione, mistero) è da lasciarsi aperto su una sorta di passerella sonnambulesca. È un dissidio che genera nuvole, nuvole, e altre nuvole ancora. Ogni oggetto artistico è un’opera dove natura e cultura tentano il sogno della inconciliabilità insanabile, perciò creativa, funzionale ad una comunicazione che si manifesta attraverso azioni fisiche di disvelamento che pensano altro , altrove, altrimenti (Simone Weill), mettendo in gioco diversi materiali linguistici e il comportamento individuale dell’artista. La prospettiva dell’attraversano della frase, dotata di dinamismo e di slancio verso il dinamismo (Gino Gori), è dato dall’enigma della bellezza, ovvero dal colore umbratile della forma organica (Franco Rella). Il velo dell’enigma è il velo del mistero e della profondità, non della superficie. E’ la sua complessità. Ovvero lo spirito dell’opera. Non spiega l’inspiegabile. Non separa il bene dal male come elementi della realtà doppiata, ma assume il bene e il male come valori irriducibili di una realtà ogni volta ri-creata. Ed è nella irriducibilità dei valori opposti e contrari che trova la sua sostanza, il velo. La ri-creazione della realtà – che esiste già in pezzi, brandelli, frammenti - si regge sulla teoria e prassi della frammentarietà e di rimbalzo della relatività dell’opera, non essendo questa in grado d’inglobare e di rappresentare il mondo nella sua interezza. E implica una manovra linguistica assai complessa e complicata che porta con sé un movimento infinito, riguardante autore, critico e fruitore finale. Sottoposta a passaggi, attraversamenti, maree e trasformazioni continue, la manovra della ri-creazione genera immagini, suoni, pensieri e profumi straordinari. E dopo, l’opera può essere soltanto tradita per amore, e pertanto complicata. Analizzare, criticare, leggere, conoscere un’opera qualsiasi vuol dire analizzare, leggere e conoscere il velo che la separa da noi. Non consiste nel dare una spiegazione logica al tutto e una volta per tutte. L’immaginazione è senza fili. Non è più guidata dall’autore che obbedisce alle convenzioni della tradizione immobile. L’immaginazione senza fili di futurista memoria rappresenta il movente del movimento infinito dell’opera, che passa dall’autore al critico, arrivando felicemente allo spettatore. Il critico, abbandonata la funzione di mediatore tra l’oggetto artistico e il fruitore dell’opera, si allontana sempre di più dall’opera nella speranza di poterla sfiorare e di poter individuare il procedimento che l’ha determinata, realizzando una scrittura che ha valore letterario autonomo. Lo spettatore, liberato dallo stato di passività e di sottomissione all’opera, acquisisce il nuovo stato di libertà interpretativa individualizzata. In tutte e tre i casi – dell’autore, del critico, dello spettatore -, in virtù del movimento infinito dell’opera si può parlare di creatività differenziata. E l’opera - intertestuale, intermediale, polidimensionale, sinestetica -, sarà colta nel suo farsi e disfarsi. Dunque, il velo può e deve essere complicato, se nel corso della scrittura è stata messa in preventivo la luce/parola che illumina assieme all’intrigo pericoloso dell’ombra (Franco Rella). Ri-creazione artistica come nostos, allora . Come ritorno ad una intertestualizzazione complessa, finalmente totale, che si avvale di tutto quello che serve per comunicare, della tecnica e del comportamento poetico dell’autore. Su questo terreno non c’è parola piana. C’è la lingua come silenzio riempito, canto, grido, bisbiglio, sostanza informe e multiforme. C’è tutto quello che viene percepito e lasciato alla soglia delle frasi. Ci sono le immagini e i suoni, ma anche il luogo dove i suoni muoiono e dove le immagini svaniscono, lasciando tracce incolori. Ci sono le peculiarità ritmiche che arrivano fino alla musica, fino alla danza, fino al canto. C’è la luce che illumina significativamente le forme, ma ci sono anche le forme di luce. C’è il valore intersemiotico generato attraverso i secoli, memore delle possibilità infinite che ha la lingua di racchiudere in sé i fantasmi e le proiezioni di tutti e cinque i sensi. Ma nella prospettiva generale dell’ unità nella diversità dei segni verbali e non verbali - che rappresenta tuttavia una possibilità impossibile, data la impurezza dell’opera d’arte -, non è l’oggetto che è bello. E neppure il suo involucro. È l’oggetto nel suo involucro che è bello. È l’oggetto che ama e possiede l’osservatore che è bello. Sottrae il sonno alle palpebre ed eccita l’animo, come accadeva con i racconti flessuosi e avvolgenti di Ulisse.

La manovra
Se le opere sono attività capaci di trasformare le cose in una molteplicità di espressioni possibili, lo scrivere esige che si traducano dati e modi particolari entro un preciso sistema di definizioni generali. L’opera d’arte si combina armonicamente sul piano delle trasformazioni che l’intelletto sa operare, servendosi di procedimenti mutuati dall’esperienza. Siffatti procedimenti consentono alla facoltà creatrice e produttrice della mente di pervenire a gradi alti di necessità, i quali, a loro volta, si configurano come una sorta di risposta alla varietà e alla indeterminatezza del tutto quanto, in noi, è possibile, contingente, arbitrario, transeunte. L’opera è il risultato di una azione il cui scopo finito è quello di provocare développements infinits : l’opera è, dunque, essenzialmente produzione di effetti. Il che esige, da parte dell’artista, un raro equilibrio delle sue facoltà, la padronanza di sé, il dominio dei mezzi tecnici e la capacità di porsi, nel corso del lavoro, le questioni giuste, in vista sia di una azione che miri alla precisione sia di un movimento che tenda allo charme. La prima si riferisce a un modello presente, il secondo consulta una verità nascosta. Queste due azioni confluiscono nella creazione dell’universo poetico, dove si consuma una trasformazione infinita di termini e di regole tradizionali, un miscuglio di stimoli psichici (e percettivi) perfettamente incoerente (Aldo Trione). Questo significa che lo scrittore lavora in funzione di una meccanica che implica compenetrazione tra espressione e impressione, tra espressione e comunicazione, tra scena materiale e scena immateriale (quest’ultima realizzata anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie della comunicazione, a condizione che non ammicchino a esteriorità meraviglianti). Tale meccanica si configura come manovra in cui entrano in gioco elementi del pensiero del corpo e del pensiero della mente , quindi come un processo di trasformazione che viene a determinarsi nell’ambito di un fare che include il rigore del ragionamento e il pensiero astratto , che realizza una alleanza tra il razionale e il sensibile. L’arte della scrittura non è esclusivamente pragmatica. Il drammaturgo ha bisogno di definire orizzonti e di creare le condizioni del proprio agire. Scrivere un testo teatrale vuol dire compiere una ri-creazione che definisce l’autosufficienza dell’opera e nell’autosufficienza chiarisce il contenuto della finzione. Scrivere è una modalità del fare poetico: il fare poetico contiene in sé l’idea del favoloso possibile: il favoloso possibile rimanda allo spazio del nulla, che è lo spazio della ri-creazione artistica. Il nulla, dunque, non implica perdita di significato, perché rimanda continuamente alla cose che nega. Non esiste soltanto il problema di scrivere un testo, ma anche quello di scrivere un testo che duri nel tempo. Su tale questione c’è chi sostiene che la ragione decisiva per cui un’opera conserva una efficacia permanente mentre l’altra invecchia è che l’una coglie gli orientamenti e le proporzioni essenziali dello sviluppo storico mentre l’altra non vi riesce(Gyorgy Lukács). Ma lo dice da una sponda ideologica che collega la transitorietà dell’arte alle sorti positive e progressive della storia, suscitando il dissenso di chi sta sulla sponda opposta – antideologica, eppure dentro la storia –, con il convincimento che l’opera possa durare nel tempo e parlare al cuore e alla mente degli uomini soltanto se produce valore aggiunto di natura poetica. In tal caso l’opera si pone nel suo divenire non come un altro mondo, ma come l’altro di ogni mondo, ciò che è sempre altro dal mondo(Maurice Blanchot). La questione del valore poetico occupa una posizione di centralità. Mi sembra legata al destino delle cose. Quando la terra si ammala, anche il cielo si ammala. Su questo dato è opportuno che il drammaturgo concentri la propria esperienza e soprattutto scarichi una violenza che non manifesti direttamente contenuti psichici e immaginari, ma che riveli – se lo possiede – un comportamento poetico rispetto alle cose che ha scelto di raccontare, radicato nelle profondità delle sue interiorità e delle sue interiora.

Il diventare e il divenire
Una creazione artistica può prescindere dal diventare ? L’opera d’arte esiste nel suo divenire , attraverso il perfezionamento continuo dell’azione combinatoria dei segni e della distillazione della forma, fino all’esattezza finale. Il diventare attiene alla dilatazione dell’anima. Da anima individuale diventa anima del mondo. Diventare pietra, diventare albero, imparare il linguaggio degli animali – come suggeriscono alcune favole – non è una punizione, ma una amplificazione dell’anima.

Credere per vedere
Il drammaturgo appartiene alla specie umana dei sognatori, dei visionari, dei pazzi luminosi, che si sono lasciati il mondo alle spalle per la incapacità di stargli dietro. Insegue il pulsare delle angosce e degli orrori, coltivando qualche larvata speranza. Progetta e realizza attraversamenti e transiti , sapendo di dover compiere il primo passo con l’impressione di muoverlo nel vuoto e di vedere nei meandri dell’esperienza il materializzarsi dell’ invisibile come conferma della sua pazzia luminosa. Il drammaturgo sa di dover credere per vedere e non vedere per credere. Per questo si distingue dal gruppo umano dei tanti. Costoro hanno bisogno del paraurti del tempo per vedere e quindi per credere. Pensano e sentono in negativo, non coltivano sogni e non seminano utopie. Parlano sempre della cattiveria degli altri. Non rivelano mai i loro errori e i loro orrori. Percepiscono il disagio perenne e fanno soltanto profezie di sventura. Per questo non sono in grado d’immaginare e, quindi, di accettare tutto ciò che è nuovo e sconosciuto. Impreparati come sono, impazzirebbero senza quel paraurti, mentre il drammaturgo impazzirebbe se non lo facesse a pezzi prima di compiere i suoi viaggi, portando con sé tre consapevolezze effimere: il primo passo è quello che conta, il naufrago e la marea sono un’unica cosa, la rotta è un continuo divenire che va continuamente verificato. Il drammaturgo, individuo plurale e indivisibile, possiede una integrità che lo tiene lontano dalle mode e che lo salva dall’entrare in odore di santità. L’integrità dell’uomo totale che può sognare, progettare l’impossibile e dargli concretezza nei labirinti di senso, senza cadere nelle soluzioni catartico-liberatorie. L’integrità dell’uomo che è diventato un individuo e dell’individuo che pone l’integrità e l’unicità a fondamento della sua condizione e delle sue facoltà. Nell’atto della ri-creazione si libera dei legami di egoità, scopre l’illusione di agire, d’investigare, senza pretendere di risolvere la contesa e di vincere sugli altri. Un’illusione che non ha valore morale o ideologico e che lo fa sentire su un piano di eccezionalità umana, nel preciso momento in cui attraversa le cose con lo stupore che non muore mai e pone la condizione del partito preso alla base del valore etico universale. Quando questo valore si determina, genera nuove indeterminazioni. Quando fa previsioni, insinua l’imprevedibile. Quando propone il disvelamento, coglie il misterioso e l’inatteso. L’opera cosa offre all’autore? La sete e la sorgente(Luigi Allegri). E l’autore cosa affida all’opera? Il sentimento del vuoto, che sopraggiunge dopo l’ebbrezza. Questo il suo credo. Credo che esista l’impurezza della lingua, come esiste l’imperfezione del mondo. Il mondo è un impasto di cielo e di terra, con buoni o cattivi odori. Da questo mondo non posso sfuggire. In questo mondo, in cui è impossibile abbandonare il trivium o eludere il meticciato, come posso sottrarmi al genere che si pone al di fuori dei generi perché li comprende o li può comprendere tutti? Credo nell’intreccio tra spettacolo dal vivo e nuove arti visive, nella letteratura di Cervantes, Fuentes e Kundera, nell’arte intermediale e sinestetica, ma anche nella insufficiente brutalità dei cinque sensi. Credo nell’impegno dell’immaginazione e della memoria, nei sogni come progetti, nel rapporto interumano, in tutto quello in cui è difficile credere perché non si vede, non si può dire, non si può toccare. Credo nella forma come grandezza dell’opera. Credo che non bisogna credere alle virtù miracolose dell’inconscio, come ha fatto Breton. Credo come Leiris nella chimica piuttosto che nell’alchimia del verbo. Credo, con Levinas che parla di Leiris, di dover afferrare il pensiero nel momento privilegiato in cui si trasforma in qualcos’altro da sé, sotto le cancellature (biffures) e nelle biforcazioni (bifurs). Credo, con Trimarco che parla di Leiris e di Levinas, nel pensiero che va al di là delle categorie classiche della rappresentazione e dell’identità. Radico perciò il mio lavoro di drammaturgo nei fatti di linguaggio che tratto come lapsus, come inceppi e dimenticanze che fanno affiorare (e nascondono) altri materiali e altre emozioni: cancellature che spingono a leggere altre parole, piste sbiadite che conducono verso sentieri imprevisti. Credo nella teoria e nella prassi della simultaneità, della indeterminatezza , della flessibilità , della frammentarietà, della alogicità e della irrealtà, come intuizioni futuriste cui riconosco una forte contemporaneità. Credo nella messa in vita e non nella messa in scena di un testo teatrale. Credo che il miglior modo per marciare verso la polis del futuro sia smetterla di stare l’uno contro armati e di creare un patrimonio nazionale condiviso. Credo nella impossibilità della nascita di nuove avanguardie: primo, perchè gli artisti se ne stanno ben radicati nei covacci del lavoro individuale; secondo, perché l’arte non riesce più a modificare la realtà. Credo nella Casa delle Drammaturgie come università barbarica, aperta a tutte le drammaturgie possibili dello spettacolo dal vivo.

(*)
Alfio Petrini svolge attività come drammaturgo, regista, attore, performer, critico. E’ Direttore del Centro Nazionale di Drammaturgia, critico di teatro e di nuove arti visive, autore di numerosi libri. E’ maestro riconosciuto delle variegate forme di teatro totale. Più in generale si occupa di creazioni artistiche intermediali e sinestetiche, e di nuove arti visive, anche nella prospettiva d’intreccio con lo spettacolo dal vivo. E’ autore di commedie, saggi e libri, tra i quali “Teatro Totale” (Titivillus, Corazzano, 2006). alfio.petrini@teletu.it