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LA PERFORMANCE D'ATTORE E LA POVERTA'

I folli luminosi


di Afio Petrini





Seconda parte



La performance d’attore e la povertà. (*)



Sono nato alle pendici del monte Subasio, dove le colline degradano verso la piana attraversata dal fiume Topino. Ho con il monte un rapporto speciale. Ogni volta che vado in Umbria sento il bisogno di andarlo a trovare, come fosse un amico. Ho vissuto a lungo in campagna. Conosco il ciclo della natura e i dettagli del lavoro nei campi. Porto ancora nelle narici il profumo delle distese di grano e di erba medica. Ho negli occhi il giallo dei meloni e i grappoli dei pomodori che tingevano le mani di verde. Sono allenato a riconoscere cose, animali e attività umane attraverso l’ascolto dei rumori. Sono cresciuto con il timore di Dio, andavo a messa la domenica, partecipavo alle feste religiose e dicevo le preghiere tutte le sere prima di addormentarmi.


Il distacco dalle pratiche religiose e l’abbandono della fede è avvenuta all’improvviso, quando ero bambino, per un fatto legato alla malattia di mia madre, sempre afflitta da violentissime emicranie. Cercavo di lenire il suo dolore appoggiandole un fazzoletto bagnato sulle fronte o sulle tempie nel tentativo - spesso vano - di vederla di nuovo in piedi con il sorriso sulle labbra. La sua sofferenza era una minaccia continua, un orrore, un segreto che mi procurava un forte disagio. Durò diversi anni. Diventò per me una idea insopportabile quando i medici alzarono bandiera bianca. Ero disperato. Chiesi aiuto a Dio : “Pregherò mattina e sera - gli dissi - per tre mesi di seguito. Ogni giorno dirò dieci Pater Noster e dieci Ave Maria. Anzi, venti. Tu sei onnipotente. Guarisci mia madre”. Un discorso facile, mi si può dire. Troppo facile. Ma ero un bambino. E anche se la mia richiesta era intrisa d’ingenuità retribuzionista, nella prorompente necessità infantile si nascondeva un fondo di verità. Ero convinto che Dio mi avrebbe ascoltato e avrebbe soddisfatto il mio desiderio. Rispettai l’impegno, ma Dio non si fece vivo.”Perché il patto di alleanza, fondato sull’amore, è stato disatteso e perciò negato? Forse non sono un bambino buono - dissi a me stesso - e non merito il dono della grazia di Dio. L’ho chiamato e non è venuto. L’ho supplicato e non mi ha ascoltato. La terra non ha un cielo. Dio mi ha abbandonato”, conclusi con il pragmatismo feroce dei bambini. Invece di provare un senso di colpa, approdai sbrigativamente alla negazione della divinità. Archiviato il rapporto con Dio, interruppi ogni relazione anche con i ministri della fede. Non so se sia stato un bene o un male. Fu così.


Passarono gli anni. Decisi di lavorare come attore. Mio padre non voleva. Mi contrastò, ma non si oppose. Andai a Milano, feci spettacoli e tournée con alcune importanti Compagnie - pubbliche e private -, della grande tradizione teatrale. Nel 1982 tornai in Umbria più di una volta per la definizione e poi per la realizzazione di un progetto pluriennale sostenuto dagli Enti Locali. In occasione di una visita al Monte Subasio, dopo aver costeggiato gli uliveti di Collepino e superato il bosco di pini odorosi, entrai nella vertigine di un silenzio sovrumano che fu interrotto dal rumore degli zoccoli di un cavallo, in corsa sfrenata, che venne fuori dalla conca erbosa del vulcano spento. Era Francesco. Tornava dalla Rocca di Spoleto, dove aveva interrotto il viaggio al seguito di Guglielmo di Brienne. Rabbrividii. Il rumore sparì all’improvviso, inghiottito dal precipizio che, in linea d’aria, separava il bosco dalla parte nord della città di Assisi.


La sensazione eccitante era quella di una scoperta. Stabiliva un punto di contatto tra il miraggio di Francesco e il mio sogno di gloria, tra l’interruzione del viaggio in terra di Puglia e il rifiuto della tradizione immobile del teatro, come se io e Francesco fossimo legati da un destino comune. Nell’eccitazione del momento, le pratiche formative correnti, le frequentazioni abituali, il confronto con i “primattori” del momento, il ritorno d’immagine di alcuni spettacoli s’ingigantivano e si deformavano. Errori che diventavano orrori. L’aria che si respirava nella città di Milano era nota a tutti i giovani attori. Eravamo convinti che il teatro importante si facesse al “Piccolo” e in pochi altri teatri. Quello era il teatro. Era quello giusto, quello vero, quello che contava. Ma, all’improvviso, come per incanto, il mondo che avevo sognato fu distrutto dal passaggio di un cavallo al galoppo. Ero pronto a imboccare una nuova strada. Più solida. La conoscevo dal punto di vista teorico, ma non l’avevo mai praticata. Mi metteva paura.


Erano gli anni ’80. Con il sostegno di alcuni libri meditavo sul fatto che il sacro fosse il luogo dell’ indifferenziato . Si trattava di una questione di rilevante interesse per i riflessi che aveva sul versante dell’arte dell’attore e della scrittura di testi linguistici. Valori opposti e contrari - il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il benedetto e il maledetto - erano forieri di una con-fusione che lasciava sopravvivere l’enigmatico e l’oscuro. Mi rendevo conto che la religione cristiana aveva distrutto l’ ambivalenza, indicando il bene in Dio e il male nel Diavolo. Riflettevo anche su un altro fatto: il cristianesimo nel compimento di questa opera aveva fatto scendere Dio in terra. Così, dopo aver abbandonato il sacro, aveva abbandonato anche il cielo e si era fatto mondo, spingendo la Chiesa a compiere una invasione di campo a danno dello Stato laico. Centrale mi sembrava il dominio della ragione: nemica del sacro, era anche nemica del teatro. E mentre ragionavo attorno ai limiti della ragione nel teatro, scoprivo il valore e la funzione del corpo/mente, che diventò ben presto una questione fondamentale nel contesto generale del lavoro sulle azioni fisiche finalizzato alla produzione delle forme organiche da parte dell’attore della performance.


Nel 1982, sollecitato dal Comune di Assisi, dove la mia Compagnia teatrale aveva una delle sue basi operative, decisi di affrontare Francesco a viso aperto e di fare i conti con lui in un contesto culturale caratterizzato dal progressivo indebolimento del messaggio evangelico. Misi in cantiere la produzione dello spettacolo “ Francesco viandante di Dio ” (testo di Enzo Gentile, regia di Alessandro Berdini). Il testo linguistico fu ridotto ai minimi termini. Poche parole e molte azioni fisiche in funzione di una performance d’attore incentrata sulla mia persona. Alcuni attori e registi mi dicevano che non avevo le fisique du role , ma si trattava di un problema inesistente. A me non interessava lavorare sul personaggio, sulla rappresentazione del personaggio di Francesco. Volevo mettermi alla prova, confrontarmi con lui, compiere atti di disvelamento, cogliere le occasioni per affermare il mio punto di vista sull ’essenza della povertà applicata al teatro e sul processo organico autogestito dall’attore. Insomma, volevo verificare se, lavorando sulle azioni fisiche e sulla dilatazione del corpo/mente, riuscivo ad avvicinare l’arte alla vita attraverso la produzione delle forme organiche .


L’ essenza della povertà si reggeva su due pilastri che Grotowski aveva indicato come elementi imprescindibili del fare teatro: l’attore e lo spettatore. A Francesco non solo mi accumunava, dunque, la ricerca di questa essenza, ma anche un atteggiamento non predicatorio nel processo di comunicazione. Eravamo compagni di strada, viandanti con obiettivi strategici di diversa natura, ma con la stessa metodologia. Francesco non cercava di catturate l’attenzione e la considerazione degli ascoltatori, che lo accoglievano festanti alle porte di Cannara o di altre città umbre, attraverso l’uso di concetti o ideologie, ma con l’atto primario a matrice fisica fondato sul principio di relazione con l’uomo. La priorità assegnata al comportamento e l’impegno assunto attraverso l’ atto totale come con-fusione della parte materiale con la parte immateriale dell’attore -, mettevano in evidenza - oltre alla povertà - un altro importante punto di contatto, rappresentato la centralità del fare che definiva la qualità dell’atto performativo, rendendolo seducente e credibile allo stesso tempo.


Per me che venivo dal teatro della tradizione immobile, che avevo assimilato la pratica della descrizione dei sentimenti sensazioni e pensieri, che avevo imparato a pompare i sentimenti, era essenziale azzerare tutto nella consapevolezza che il sentimento da comunicare non fosse altro che l’insieme delle azioni fisiche che lo costituivano. In altre parole, per me ( attore me stesso) che consumavo in pochi giorni di prove la spontaneità iniziale della parola da dire, che ero stanco di ripetere le battute e i toni imparati a memoria, mi si presentava in termini rivoluzionari la scoperta del movimento che andava dalla cosa al come , dal materiale all’ immateriale, e che portava con sé energie vitali e ritmi, assieme alla organicità delle forme. Più in generale, posso dire che la follia luminosa di Francesco non era una bella espressione appiccicata pedissequamente ai processi della comunicazione teatrale, ma una cosa vera, nel divenire della dimensione della soglia generata dall’autogestione dell’ atto totale . La pratica legata al lavoro sulle azioni fisiche, l’autogestione del processo organico e l’attraversamento della soglia sono diventate nel prosieguo del tempo questioni a cui ho rivolto un’attenzione crescente, ponendole non solo al centro della performance d’attore, ma anche della drammaturgia, cioè della scrittura di testi linguistici elaborati in funzione delle variegate forme di teatro totale fondate su miscele linguistiche eterogenee.


Francesco non era un santo, era un uomo. L’arte della vita e la vita dell’arte erano atti in transito. In qualche modo ci univano. Capire Francesco voleva dire capire me stesso, assumere un atteggiamento critico nei confronti dell’attore tradizionale che ero stato e che non volevo più essere. Ero stato un attore povero e la povertà mi sembrava che fosse stata una miseria, mentre la povertà dell’attore impegnato nella manifestazione di un comportamento poetico mi appariva ora come una grande ricchezza.


Nello spazio metaforico di un giardino zen anch’io cercavo il mio dio. Cercavo il dio che stava dentro di me. Il rettangolo, destinato alla celebrazione del rito, era disegnato da pietre rosa, squadrate, messe una accanto all’altra, e riempito di terra. Al centro, due pietre più grandi, massicce, separate l’una dall’altra, irregolari, circondate da un’erba viva che il direttore di scena raccoglieva nei campi poche ore prima dello spettacolo. Il giardino zen era lo spazio scenico. Le chiese romaniche erano i luoghi dove veniva collocato lo spazio scenico. Sceglievo quelle romaniche perché disadorne. E quando mi dovevo adattare a quelle barocche, facevo togliere tutti gli arredi sacri e gli ornamenti floreali. Il luogo doveva contribuire a creare il silenzio: il silenzio riempito dal movimento del pensiero e dal movimento del desiderio dell’attore performer. L’azione aveva inizio all’esterno della chiesa romanica. Ricordo il portone spalancato di Collemaggio, a L’Aquila. Gigantesco.


Cammino scalzo. Sono piccolo, indifeso. Supero la soglia, giro il capo, guardo il portone che lentamente si chiude. Mi lascio il mondo terreno alle spalle. Proseguo verso il lato corto del giardino. Ritrovo la dimensione fisica naturale. Mi concentro sul freddo del pavimento, sulla leggerezza del corpo asciutto, sul ritmo e l’energia del passo, lento ma sicuro, fino al bordo di pietra. I piedi compiono l’azione primaria del camminare: il resto del corpo l’accompagna. Sollevo il piede destro, l’appoggio sulla terra: al contatto si accendono le luci. Avvio il lavoro sulle strutture fisiche che costituiscono la tessitura delle sequenze. Faccio riferimento alle centinaia di azioni fisiche che ho imparato a memoria. Solo dopo ho imparato a memoria le battute. E dopo averle imparate a memoria, ho cercato di dimenticarle.


Le prove sono servite a frantumare le azioni, a farle diventare sempre più piccole, perché fossero concrete, dettagliate e stimolanti. Poi le ho suffragate con una serie di specificazioni di qualità perché risultassero logiche, credibili e affascinanti. Le microazioni fisiche facilitano la concentrazione, consentono di alimentare e di controllare al meglio il movimento di attraversamento della dimensione della soglia. Solo se mi perdo posso ritrovarmi e solo ritrovandomi posso di nuovo perdermi.


E’ difficile raccontare il movimento della dilatazione del corpo e della dilazione della mente. E’ difficile descrivere il luogo della soglia . E’ la prima volta che parlo di questa performance d’attore. E’ la prima volta che cerco di raccontare cose che sono irraccontabili. Le cose che voglio dire possono essere dette? E qual è la forma del non-detto dell’attore muto? Dove nasce il silenzio? Dove ha origine l’azione? L’uno e l’altra a cosa tendono? Ha un timbro il silenzio che parla? Ha una energia? L’accompagna un sentimento? Il sentimento è l’insieme delle azioni fisiche che lo costituiscono. Ecco, ho trovato il modo di dire una cosa che per molto tempo ho avuto difficoltà a raccontare. Implicitamente ho trovato il modo per non distrarmi, per non disperdermi in pensieri fuorvianti, per non essere presente a me stesso, sfuggendo alle grinfie della ragione. Mi concentro sull’azione fisica e sulle circostanze date. Sono la mia ancora di salvezza. Naufrago. Però, solo se vado a fondo posso riemergere. Solo se muoio, posso rinascere. Aderisco all’azione fisica con l’energia necessaria e sfioro di nuovo la dimensione della soglia, che è la mia droga. Bernardone mi stimola. Bernandone non è il ricco mercante di stoffe: è mio padre. Un indemoniato. Grida che non devo perdere tempo con il teatro, che devo finire gli studi universitari. E così faccio gli occhi piccoli per proteggermi dalla voce stridula.


L’attore che sta in scena con me recita la parte, mentre io la ignoro. Lavora sui toni, mentre io lavoro sulle azioni fisiche. Questa è la causa della schizofrenia dello spettacolo, lo ammetto. Non mi curo del personaggio di Francesco. Non voglio rappresentarlo. Non voglio interpretarlo. Il collega ripete quello che ha imparato a memoria, io invece ri-faccio le azioni come se ogni volta fosse la prima volta. Lui mette la maschera, io compio un atto di disvelamento. Non mi “calo” nel personaggio (come potrei? non c’è nel testo, il personaggio è un lessema). Lo utilizzo piuttosto per affermare il mio punto di vista. E danzo ora. E canto poi una nenia che ho sentito da mia nonna, mentre la figura di mio padre suscita paura e ammirazione. Anche l’emozione è data dal complesso delle azioni fisiche che la costituiscono. Dunque, lavoro alla sorgente del fiume. Rivolgo l’attenzione alla causa, non all’effetto. Così scrivo la vita con quello che non c’è, come il volo degli uccelli. Una sequenza sorprendente. Gli ingredienti sono minimi: il dito indice della mano destra e l’impulso che parte dal tronco. Le modalità sono artistiche. Scrivo la vita con quello che vedo (anche se non c’è, come il volo degli uccelli; del resto solo se vedo quello che non c’è posso diventare una visione). Scrivo la vita con quello che ascolto e che faccio. E se ho paura e ammirazione per mio padre Bernardone, significa che vivo: non mi vedo, perché vivo.


Il giardino zen è il luogo delle meditazioni e delle visioni, della rimembranza, della spiritualità accompagnata dalla materialità delle cose quotidiane, impresse nella memoria e restituite dal pensiero del corpo. E’ il luogo dell’amore e della violenza, della giustizia e della vendetta, dove un corvo viene ucciso per aver ucciso un passero che gli aveva rubato una mollica di pane. E‘ il luogo del sacro. E’ il luogo della contesa , dove valori opposti e contrari coesistono: amore e odio, bene e male, dolore e gioia, errore e grazia sfrigolano senza annullarsi reciprocamente. E’ il luogo dove il buon Signore, altissimo e onnipotente, può fare una cosa ma anche il suo contrario: può ascoltare la preghiera di un bambino che vuole godere del sorriso della mamma, ma può anche ignorarla. Lancio un grido. Violento. Rabbioso. Suona come una imprecazione.


Dopo la “prima” del 2 di ottobre, in Assisi, alla presenza del Legato Pontificio, feci una tournée di circa ottanta “piazze” e tornai a Roma tre volte con lo spettacolo. Non mi meravigliai più di tanto, quando vidi uscire dal teatro il cardinale incaricato della selezione degli spettacoli destinati alle “celebrazioni francescane”. La morte del sacro e l’ateologia non erano temi presenti nello spettacolo, ma non posso negare che Francesco risultasse agli occhi e alle orecchie dei testimoni un personaggio inquieto e tormentato. Per certi aspetti anche violento, come penso che siano - violenti e duri e intransigenti -, tutti i folli luminosi di questo mondo.


Una cosa è certa: ho scritto questa esperienza come transito di vivi e di morti. La racconto cercando di dire quello che c’era e quello che non c’era. Tra quello che ho visto, e che c’era, non dimenticherò mai i testimoni muti della performance d’attore, muti ma partecipi, che si voltavano verso il muro della chiesa per pregare o per piangere silenziosamente, oppure che mi baciavano le mani. Perché? Me lo sono chiesto molte volte. Alla fine sono giunto a questa conclusione: pregavano, piangevano o mi baciavano le mani perché non pompavo sentimenti. Perché il mio corpo/mente - con una opportuna manovra - si dilatava, provocando la dilatazione del corpo/mente dei testimoni, ai quali evidentemente arrivavano forme organiche seducenti. L’alternativa alla ragione e alla parola che spiega i significati sta nei ritmi e nelle energie vitali che possiedono il cuore e la mente dei testimoni, i quali, da muti, diventano attivi e partecipi. Erano loro che facevano il personaggio. Lo immaginavano. Lo vedevano. Non ero io a farlo. Di certo il teatro non ha bisogno di attori, registi o drammaturghi, ma di uomini: di pontifex: uomini capaci di costruire ponti , creare transiti , inventare passaggi . Ed è proprio alla formazione di uomini liberi - liberi da ogni resistenza e da ogni pregiudizio - che dovrebbero guardare le scuole di teatro e le università, ma questo è un altro discorso: difficile, ma non impossibile.


La critica ufficiale dell’epoca ebbe nei miei confronti una scarsa attenzione. Alcuni scrissero che “un piccolo Grotowski” si aggirava nell’Italia centrale e meridionale con uno spettacolo su Francesco di Assisi. Altri definirono lo spettacolo “devozionale”. Che facessi riferimento alle teorie di Grotowski sul “teatro povero” era vero ed era altrettanto vero che fossi decisamente “piccolo” rispetto al geniale regista polacco, ma respingo in modo categorico il carattere devozionale” della performance. Facevo parte di quella generazione di attori che, dopo aver rubato tutto quello che potevano rubare al teatro della tradizione teatrale, sentivano il bisogno di cercare una strada personale che portasse al superamento dello stallo derivante dall’alienante trasformazione della parola scritta in parola parlata. Non ritengo che la performance d’attore su Francesco “viandante” fosse un capolavoro di perfezione. La metodica di lavoro sulle azioni fisiche e sull’ atto totale arriverà a maturazione negli anni successivi. Penso tuttavia che nella performance ci fossero i risultati di una pratica che poteva essere considerata soddisfacente. So come gira il mondo. E ricordo i sorrisetti ironici di alcuni critici, attori e registi quando con il Centro Nazionale di Drammaturgia ridefinii e rilanciai il tema del teatro totale , impegnandomi in produzioni artistiche fondate sulle miscele linguistiche eterogenee; quando realizzai le sei edizioni della Vetrina Internazionale del CND in Aree Intermediali e Sinestetiche e, nel 2001, quando organizzai il primo convegno in Italia sulla Pluralità del Linguaggio nella creazione artistica.


(*) Questo racconto è stato pubblicato nel mese di agosto 2013 sula rivista Mimesis Journal,diretta da Antonio Attisani, con il titolo “Francesco e la performance d’attore”.