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iL TEATRO NELLA SCUOLA

Recensione pubblicata su DRAMMA.IT

Rubrica
ALLA RICERCA DEI TEATRI
a cura di Alfio Petrini

Dramma.it, marzo 2011.

Il teatro nella scuola.

Le istituzioni scolastiche cosa fanno per promuovere la cultura teatrale? Volendo aggiungere, sottraggono. Volendo far crescere, impoveriscono. Invece di far conoscere i teatri, fanno conoscere il teatro, quello della tradizione immobile. E’ assai radicato il convincimento che sia il teatro in genere e non un genere di teatro - mimetico, realistico o naturalistico che dir si voglia -, ad essere dialogico e portatore di un messaggio esplicito e descrittivo.

Lascio da parte la problematica dell’uomo a due dimensioni o della comunicazione umbratile, limitandomi a porre alcune banali domande. I giovani hanno bisogno d’imparare a memoria un testo e di ripeterlo con il corredo di qualche movimento per lo spettacolo di fine anno, oppure hanno bisogno di fare un’ esperienza? Nella scuola pubblica si farebbe insegnare matematica ad un attore? Assolutamente no. Eppure, ho visto insegnanti di matematica o di letteratura italiana insegnare teatro, e nel migliore dei casi attori o registi appena diplomatosi in una delle tante scuole di teatro. Questa pratica rivela un atteggiamento di superficialità, mostra un comportamento che nega la certezza dell’esperienza, mortifica le finalità di crescita culturale, abbassa il livello di considerazione sociale nei confronti del teatro, non suffraga con i fatti l’esaltazione retorica del teatro.

Prendo in esame il lavoro svolto da due insegnanti della scuola dell’obbligo e raccolto in altrettanti libri. Il primo 1) accende due fari: uno sul teatro come d’ incontro tra persone e l’altro sulla centralità dello studente come individuo. Ma come si fa a determinare l’incontro e a tenere in buona considerazione la soggettività dello studente? Questo è il problema che non viene risolto. Ho forti dubbi che la teoria della messa in scena del testo e la conseguente trasformazione della parola scritta in parola parlata secondo le regole della tradizione; che esercizi come “ascoltare la musica per ballare, rafforzare l’intenzione, trovare l’intonazione giusta in rapporto all’intenzione”; che l’applicazione del Tai Chi come “studio della consapevolezza e della pienezza del gesto”, siano atti funzionali al raggiungimento degli obiettivi strategici del progetto. Il teatro o diventa un’esperienza o si risolve in una ripetizione di gesti e di toni veicolati dai media. L’antropologia teatrale ci ha insegnato che il lavoro sulla intonazione, sul gesto e sul movimento non comporta un apprendimento in corpore vili; che per apprendere bisogna disimparare, cioè liberarsi delle resistenze , delle convenzioni, dei condizionamenti della vita quotidiana, avendo cognizione della differenza tra livello quotidiano e livello extraquotidiano della creazione teatrale.

Il secondo insegnante, come ci racconta nel suo libro 2), è particolarmente interessato alla teoria interdisciplinare trasferita al teatro musicale. Oltre alla verifica di come viene applicato il pensiero dei suoi padri culturali (Tomatis, Dalcroze, Delalande, Willems, Paynter e Aston, ai quali l’autore attinge a piene mani), m’interessa accertare il tasso di coerenza e di credibilità del progetto, che è finanziato dal Ministero della Pubblica Istruzione e finalizzato all’aggiornamento professionale degli insegnanti.

Il responsabile del progetto passa con disinvoltura da considerazioni che interessano il compositore a quelle che riguardano l’esecutore musicale, al danzatore, il direttore d’orchestra, il cantante-attore. Ed è difficile stargli dietro, perché le questioni sollevate non si adattano perfettamente alle diverse figure professionali. Nel coacervo delle citazioni insiste molto sulla interdisciplinarietà - intesa come unione, fusione, dialogo e incontro di diverse arti e discipline -, con lo scopo di “esplorare nuove aree poste ai confini tra le discipline stesse”. Il tentativo di esplorazione si risolve in un tecnicismo verbale riferito ad aree che sono nominali, che non esistono in concreto come luoghi della interazione tra discipline di diversa natura. Come pure astrazioni terminologiche non sono quindi in grado di generare le zone di confine di cui si favoleggia. Interagiscono i segni verbali e non verbali della scrittura drammaturgia. Interagiscono i codici espressivi della scrittura scenica nel contesto del lavoro multicodice e intercodice. Non interagiscono le arti o le discipline. Ne consegue che non è corretto parlare di linguaggio della musica o di linguaggio della danza, perché il linguaggio della creazione artistica è uno soltanto. Si deve piuttosto ragionare in termini di pluralità del linguaggio.

L ’emozione, la sensazione, il pensiero non nascano con la parola e nella parola, ma nascono con l’azione fisica e nell’azione fisica, e si rivelano con la trasformazione del corpo. Il lavoro sull’azione fisica guarda con interesse a una manovra che rende - come sostiene Emile Jacques-Dalcroze in riferimento alla musica -, tutto l’organismo umano un orecchio dell’ascolto interiore. Tant’è vero, aggiunge il compositore ginevrino, che il bambino ha grande difficoltà ad usare le braccia nel cantare una canzone mimata, perché non sa usare il corpo per compiere l’azione fisica del cantare. E sulla organicità delle azioni fisiche del bambino è certamente utile il contributo di François Delalande, che supera la linearità delle tre categorie del gioco-motorio, simbolico, e delle regole stabilite dal Piaget, affermando la verticalità delle tipologie di gioco. In altri termini, la manipolazione induce il bambino a finalizzare l’azione fisica con la qualità sonora dell’oggetto musicale. L’azione fisica, non il gesto come movimento di un segmento del corpo. L’azione fisica, non il movimento come spostamento del corpo da un punto all’altro dello spazio scenico per motivi di funzionalità operativa legata all’imitazione del quotidiano. In tal senso si può dire che il discorso sull’azione fisica in teatro vale come discorso sull’orecchio esteso a tutto il corpo nel campo della musica. Se è vero che lo strumento è un prolungamento del musicista, l’esecutore non suonerà con lo strumento, ma con tutto il corpo. Se è vero che la musica nasce - con il suo carico di ritmo e di energia - dentro il corpo a seguito di uno stimolo esterno, non potrà essere evidentemente l’effetto della scelta razionale di un sentimento prestabilito, come sostiene Edgar Willems, docente di psicologia della musica, e come pensa il responsabile del progetto in questione che lo interpreta. Sarà piuttosto il risultato dell’ascolto interiore di tutto l’organismo umano (corpo, mente e interiora). Il processo creativo vero è un processo organico . Coinvolge la totalità dell’essere umano, il pieno delle sue facoltà di pensiero e di desiderio. R i-creazione è dunque l’esatto opposto di ripetizione. Saper ri-creare, cioè ri-fare ogni volta come fosse la prima volta, fa indubbiamente la differenza. Fa la qualità nuova della forma artistica. Fa il suo vigore e la sua credibilità: quel vigore e quella credibilità che né il responsabile del progetto né il suo ispiratore sanno spiegarci. E quando il primo introduce Paynter e Aston a suffragio della sua ipotesi di lavoro, non si accorge che l’invito di Willems a lavorare partendo dal sentimento o da uno stato d’animo è contrario all’indicazione che viene dai due compositori inglesi, sostenitori di un processo creativo che parta dai sensi. Due modalità opposte, messe inopportunamente insieme, non fanno un processo.

Dal libro si apprende che il Gruppo di Progetto - formato da docenti, dirigenti scolastici e da un ispettore del Ministero -, ha messo in preventivo un seminario finale di cinque giorni sul teatromusicale , destinato agli insegnanti, raccogliendo il parere contrario di uno dei membri del Gruppo. Le finalità riguardano la “valorizzazione della convergenza della pluralità dei linguaggi (che non è la pluralità del linguaggio) e delle forme espressive che si avvalgono del corpo, della voce (la voce non è corpo?), dei testi e degli strumenti musicali all’interno di un significativo contesto coreografico” (legato ovviamente alla fissità degli stilemi). Grandi intenti per una sommatoria sterile di propositi che lasciano aperta una questione fondamentale: si devono pompare sentimenti attraverso l’utilizzo di strumenti musicali, oppure si devono ri-creare attraverso il processo dell’orecchio di ascolto interiore? Si devono ricreare o ripetere? Non si può rimanere sulla soglia di una visione metodologica contraddittoria. Non si può negare ciò che si vorrebbe affermare. Dulcis in fundo. L’obiettivo strategico del progetto prevedeva la elaborazione di un modello di teatromusicale che consentisse la trasmissione del sapere a beneficio di un numero di scuole più ampio in una prospettiva di globalizzazione dell’aggiornamento professionale degli insegnanti. Se c’è un ambito in cui l’applicazione di modelli risulta mortale, è proprio quello artistico, in cui rientra anche il teatro. Per fortuna degli studenti italiani l’allargamento del bacino di utenza non ha avuto seguito. Se il responsabile del progetto avesse ascoltato l’allarme lanciato dal collega, avrebbe fatto quello che era auspicabile: un laboratorio intensivo di tre mesi per un gruppo motivato di studenti e di professori, condotto da un maestro riconosciuto, che sarebbe costato di meno e avrebbe prodotto di più. A volte, però, sembra che le cose semplici siano impossibili.

1)Pasquale D’ascola, Il pieno è il vuoto? , Ipoc, Milano, 2006.

2) I l teatro musicale, una esperienza interdisciplinare . ” IPOC, Milano 2006.