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IL CONTRATTO PSICOLOGICO (21/03/2006)

Quanti contratti di lavoro esistono? La Riforma Biagi ne ha introdotti diversi e per tutti i gusti. Seppur tecnicamente differenti, i contratti di lavoro (sia flessibile che fisso) hanno in comune un tipo di accordo astratto che definiamo contratto psicologico. Esso è sottointeso, informale, non regolamentato e contiene un coacervo di regole astratte che relazionano il lavoratore all’azienda. Più concretamente, potremmo dire che il contratto psicologico costituisce il complesso delle aspettative che ciascun lavoratore ha nei confronti della propria azienda ed, al tempo stesso, l’insieme delle aspettative che l’azienda ha nei confronti del lavoratore. Tant’è vero che, a parità di mansione, un operaio single e senza figli ha delle aspettative differenti rispetto ad un collega sposato, con figli ed un mutuo sulla casa. Al momento della firma del contratto di lavoro, ciascun lavoratore formula le aspettative personali (quali, compenso proporzionale al lavoro svolto; possibilità di turni; giorni di ferie; diritto al sindacato; ambiente salubre; equo trattamento sul posto di lavoro; corsi di aggiornamento; crescita professionale; resoconto e riconoscimento delle proprie performance) da conciliare con quelle dell’azienda (quali, rispetto dell’orario di lavoro; rispetto degli obiettivi; lealtà ed onesta professionale; cura del patrimonio aziendale; affezione all’azienda). Allorquando dovessero venir meno le aspettative dei due contraenti (lavoratore ed azienda), si genera uno squilibrio tra il contratto formale e quello psicologico per il quale l’azienda si ritiene poco soddisfatta, mentre nel lavoratore maturano demotivazione e frustrazione che lo portano a lavorare senza motivazione e senza entusiasmo. Questo precario status psicologico si traduce in una contrazione della produttività e del necessario apporto creativo del lavoratore stesso. In sostanza, il gap tra il suo costo ed il suo rendimento si riduce fino ad annullarsi. Se questo fenomeno si genera per la maggior parte dei lavoratori, ecco spiegata la perdita di competitività (e quindi di fatturati e di utili) dell’azienda. In altre parole e com’è stato dimostrato in diverse ricerche, il potenziale economico inespresso delle risorse umane dell’azienda rappresenta oltre il 40% dell’utile effettivamente realizzato. Ne consegue che, più è soddisfatto il lavoratore è più migliorano i risultati dell’azienda. Ma come motivare il personale? Le ricette sono diverse e soggettive, ma tutte non possono prescindere dalla capacità dell’azienda di creare le condizioni affinché le aspettative del lavoratore siano coerenti con quelle economiche dell’impresa. La competitività è, fondamentalmente, il giusto compenso per una cultura d’impresa evolutiva che faccia leva non solo su capannoni e macchinari ma (e soprattutto!) sulla potenzialità delle idee e della conoscenza che devono essere lealmente stimolate ed incentivate. In questo modo diventa più facile far convergere le reciproche aspettative assicurando risultati migliori.