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Dalla donna di Freud a ‘Le’ donne di Lacan

Le implicazioni nella clinica
  • di Cristiana Cimino



In che senso si può parlare di clinica al femminile, o di una specificità della clinica femminile, o di una specificità femminile nella clinica?


Per gli psicoanalisti non si può parlarne, intanto, che partendo dalla concettualizzazione freudiana del femminile, ossia dell’essere donna, di quell’essere che è la donna.


Dopo averci sorpreso già diverse volte con la trasformazione delle sue formalizzazioni – con la teoria del narcisismo, con il passaggio dalla prima alla seconda topica, con quello dalla prima alla seconda ripartizione pulsionale – Freud, all’inizio degli anni ’30 ci sorprende nuovamente, non solo perché confessa che in fondo delle donne e del loro desiderio non ha capito nulla, e questo inizialmente sembra rendergli il mestiere di analista insensato, ma perché la sua constatazione mette radicalmente in crisi la concezione dell’edipo.


Dietro l’edipo “classico” Freud scopre quello che fino a quel momento aveva trascurato, qualcosa di molto più radicale, e che, mutuando il termine dall’esploratore Clarke, Freud chiamerà “ dark continent ”(1931a) . Si tratta dell’investimento originario della bambina sulla madre. Esso, nel caso di scelta amorosa eterosessuale, dovrà essere sottoposto a una laboriosa contorsione per essere spostato su un oggetto di genere maschile-paterno. A questo punto del suo percorso Freud si rende dunque conto che non c’è simmetria nei due sessi rispetto all’edipo: nella donna esso è segnato dal primo amore della bambina, quello appassionato e ostinato per la madre. Amore destinato a estinguersi, almeno in teoria, perché impossibilitato nel suo compimento, ci dice Freud. E anche accompagnato dall’odio dovuto alla scoperta sconvolgente di una madre sprovvista dell’attributo fondamentale – il fallo evidentemente – ancor prima di scoprire che ne è sprovvista anche lei. L’amore per la madre è sconfinato e per definizione segnato dalla recriminazione rabbiosa: non mi hai dato abbastanza latte, mi hai sedotta e poi abbandonata, ma soprattutto non mi hai dotata del più prezioso degli attributi. Anche se per Freud, più che di fallo con tutte le implicazioni che troveremo in Lacan, si parla di pene, di organo vero e proprio di cui l’uomo è provvisto e la donna no. Il successivo e tenace attaccamento della bambina al padre non è che l’eredità di un attaccamento altrettanto forte e duraturo alla madre. La sua intensità per Freud è un indicatore: più è stata forte l’intensità del legame alla madre più forte sarà quello al padre, elemento che evidentemente ha notevoli implicazioni nella clinica. Quante volte capita di assistere allo spostamento dalla madre all’uomo dei caratteri dell’investimento amoroso?


La soluzione freudiana – deludente e non soddisfacente per lo stesso Freud – che fa di una donna una donna è quella di diventare una madre. Il fallo mancante non può che essere sostituito da un bambino donato dal padre, l’amore per il quale dovrebbe prendere il posto e placare la passione bruciante per la madre e compensare la domanda a lei rivolta. Ammesso che ciò che può legare la donna all’uomo sia sopravvissuto alla catastrofe del legame alla madre (1931b).


Per Freud l’anatomia è il destino, alla donna manca qualcosa, c’è il Penisneid . L’ho visto, voglio averlo! L’operazione fondamentale è la sostituzione del fallo con qualcosa d’altro, come regola con un bambino. Brava donna! Hai un bambino! La risoluzione della questione femminile è per Freud sul piano dell’avere qualcosa. La donna esiste in quanto ha: un bambino o un altro sostituto del fallo, il sapere, un uomo, ecc. Anche la bourgeoise , come la chiamerà Lacan, la donna per eccellenza, ha qualcosa: denaro, beni, classe. Ci sono modi per i quali le donne fanno come se non mancasse loro nulla, che non reclamano questo avere. Alcune donne occupano perfettamente questo posto: donne, compagne che non domandano, non interrogano il desiderio dell’uomo in quanto mancanti.


Altre non lo vogliono occupare. Sono isteriche? O sono Le donne ? Questione spinosa…


La soluzione prevista da Freud non contravviene al fatto che, nonostante la codifica edipica, donne si diventa attraverso vie tortuose e molto poco prevedibili. Meno ancorate alla struttura, diremmo.


Per Freud, tuttavia, la donna riuscita bene è la madre. Egli escogita una soluzione che ripristina del tutto le conosciute coordinate edipiche che avevano vacillato, il suo audace interrogativo – che cosa vuole una donna? – è destinato a restare sospeso e congelato ma oramai è posto.


Circa quaranta anni dopo Lacan raccoglie e rilancia l’interrogativo freudiano che lo porta a enunciare il provocatorio e malinteso aforisma “la donna non esiste”. La donna non esiste perché nell’inconscio esiste solo la madre, la posizione materna che rientra nell’ambito edipico. Alla triade edipica, che non è una favoletta ma la struttura che ci costituisce in quanto esseri umani, Lacan aggiunge, in un radicale tentativo di de-psicologizzare la psicoanalisi, il quarto elemento che è il fallo. Ciò che conta per Lacan è il rapporto del soggetto, uomo o donna che sia, con il fallo. Il così detto primato del fallo – che non è l’organo – per Lacan significa che siamo tutti sottoposti alle leggi del linguaggio, che siamo esseri parlanti. Il linguaggio non è qualcosa da apprendere, come per tanta psicoanalisi evolutivista, ma lo aspetta al suo nascere, lo permea nel corso della sua storia, lo costituisce. Proprio perché l’inconscio per Lacan è strutturato come un linguaggio, esso è in grado di produrre effetti di senso, dice sempre più della coscienza, ci trascende, ci divide. L’edipo rettificato in questo modo da Lacan è la struttura che ci determina, che introduce il divieto dell’incesto e rende umano l’uomo.


Per Freud la differenza sessuale è data da ciò che in un essere umano c’è oppure non c’è, che per lui ha sostanzialmente a che vedere con l’anatomia, con una mancanza reale. Lacan conferisce al fallo uno statuto immaginario, ossia di oggetto immaginario che la madre non ha e che diventa oggetto immaginario del suo desiderio. La scoperta che alla donna esso manca porta il bambino a voler essere il fallo della madre, ciò che a lei manca, riempire la sua mancanza. Dalla parte della madre il desiderio di bambino è il desiderio di essere completata del fallo mancante. Ma il fallo ha valore anche quando non c’è, ossia quando si rinuncia ad esserlo sul piano immaginario, grazie al suo statuto simbolico e al rapporto che il soggetto intrattiene con esso, ossia al fatto di funzionare operativamente come significante. Per Lacan il primato del fallo significa semplicemente che siamo tutti, uomini e donne sottoposti all’ordine simbolico, non che qualcuno ha qualcosa in più e qualcuno in meno, l’equivoco classico che Freud, suo malgrado, ha alimentato.


La prima sottomissione a quel limite che è la castrazione e di cui Lacan, contrariamente a Freud, farà un punto di forza, è costituita dal fatto che siamo esseri di simbolico, esseri parlanti. La posta in gioco nella cura e nella vita, è la rinuncia all’identificazione con il fallo immaginario per gli uomini e l’identificazione al fallo simbolico, ossia con la funzione paterna che rompe la diade immaginaria madre-bambino. Quest’altro aspetto necessario della castrazione simbolica consentirà di trovare un posto nel mondo.


Per la donna la soluzione lacaniana è più complicata. Anche per lei è prevista la rinuncia a identificarsi con il fallo immaginario ma anche a possederlo, altrimenti avremo l’isteria. L’accettazione della mancanza, che spetta a tutti, e della possibilità di godere del fallo dell’uomo e di farsi oggetto del suo godimento è quello che Lacan, almeno fino a un certo punto, pensa per la donna. Come si vede questa soluzione, che è dalla parte dell’essere, consiste, come osserva Miller (2009), nel metabolizzare la mancanza, nel metterla in gioco. Potremmo dire che la donna è quella che per eccellenza deve, ma, anche, è nelle condizioni di compiere tale operazione.


Effettuati questi rispettivi passaggi il soggetto, uomo o donna che sia, potrà godere di un oggetto di investimento – che Lacan chiamerà oggetto a – che ha valore fallico, subordinato alla legge della castrazione, alla struttura. Il godimento così conquistato è godimento fallico, ossia godimento che ha subito l’interdetto dell’incesto, del corpo materno. Fin qui abbiamo la donna, sottoposta alle leggi della struttura.


Da un certo momento del suo percorso Lacan inizia a prospettare una posizione femminile differente e a distinguere contemporaneamente l’isterica dalla donna, fino a spingersi ad enunciare che l’isterica non è una donna (Lacan 1991, Cavasola 2013). Che cosa vuol dire? Che Lacan sta pensando a un altro modo di essere per la donna, radicalmente diverso, che culminerà nell’enunciazione “la donna non esiste” (Lacan 1975). Cosa significa questa enunciazione così malintesa?


La donna non esiste perché è impossibile, secondo Lacan, la sua concettualizzazione, la donna non esiste in quanto concetto, in quanto regola che vale per tutti, all’insegna della legge, di ciò che rientra nell’ambito edipico, anzi, per dirla con Lacan, nell’ambito fallico. La donna non esiste perché possono esistere soltanto Le donne, ognuna a modo suo, tutto da trovare, tutto da inventare. La donna non è più un concetto ma una contingenza che, contrariamente agli uomini, la rende Le donne. Essa è indissolubilmente legata all’esperienza e al godimento soggettivo di ogni donna, il “che vuole una donna” di Freud. Si configura così, accanto a quello fallico, un diverso godimento, quello femminile, l’in più che fa la donna e che può renderla perturbante all’uomo e a se stessa (Cimino 2010). E’ perturbante ciò che sfugge perché non è tutto riassorbito dalla legge e dalla struttura che valgono per tutti, e di cui vediamo gli effetti tutti i giorni. Capita che la soluzione per afferrare, per illudersi di avere potere su ciò che sfugge sia di farlo tacere per sempre.


Dunque, la risposta lacaniana, che resta aperta, rispetto all’interrogativo freudiano è che qualcosa dell’essere donna, delle donne o di chi si pone in una posizione femminile sfugge al cosiddetto primato del fallo. L’indicazione è la rinuncia all’illusione di padronanza e di potenza fallica, che nel godimento femminile diventa radicale, naturalmente con i rischi del caso.


Lacan riprende precocemente la questione della roccia basilare contro cui, secondo Freud, ogni cura è destinata ad arenarsi, facendone la posta in gioco di un’analisi e della sua fine e/o del suo fine. Mi riferisco evidentemente alla castrazione e nello specifico al testo freudiano Analisi terminabile e interminabile (1937), la sofferta risposta a Ferenczi che aveva rimproverato Freud di non averlo curato abbastanza (Ferenczi-Freud 1904/1914). Ma cosa sta veramente chiedendo Ferenczi a Freud? Di non avergli restituito la presunta beatitudine e completezza originarie, di non avere, insomma, sanato la mancanza. Quello che Freud risponde è che oltre la roccia dura non si va, che in fondo la castrazione non può restare che angoscia di castrazione. Nessun uomo sostiene la sottomissione passiva al padre, la cerca – perché ne cerca l’amore, e questo è un altro aspetto dell’edipo, l’altra faccia della rivalità- ma non la sostiene.


La castrazione è un meno per Freud, per Lacan è un in più, è l’acquisizione e la soggettivazione del limite. La posizione freudiana, paradossalmente, consiste nel trovarsi impotente proprio perché non-castrato. Il mito freudiano del padre corrisponde a quello che Lacan (1991) definisce il sogno di Freud (inteso proprio come realizzazione di desiderio), ossia l’uccisione del padre e il desiderio della madre che si equivalgono: secondo Lacan qui sta il godimento che trattiene Freud, impedendogli di andare oltre la roccia basilare. La necessità di sottomettersi al limite della castrazione, invece, in Lacan è ciò che permette di trovare una posizione nel mondo: compagno, padre, ecc.


Dunque l’interrogazione lacaniana sulla questione del femminile, lasciata in sé un po’ sospesa, riprende fortemente quella del rapporto al fallo e alla castrazione da una ulteriore prospettiva. Se la donna non è tutta, non tutta lì, tutta nella struttura, allora il padre deve cimentarsi con questo non-tutto femminile, non (solo) con l’universale de La donna, ma con la sua singolarità. La sottomissione alla castrazione è necessaria e non sufficiente per avere a che fare con la singolarità femminile di ciascuno. Il percorso di Lacan oltre l’edipo prevede un ridimensionamento del padre, sempre meno universale e sempre più ingaggiato nel maneggiare la singolarità di una donna e dunque la propria.


Tutto questo rilancia in modo molto importante, dal mio punto di vista, il lavoro clinico sulla castrazione, con tutte le implicazioni etiche del caso. Il lavoro che si pone nell’ambito della cura, nella prospettiva del rapporto alla castrazione e alla mancanza, costituisce una concezione contrapposta ad una attualmente molto praticata, secondo la quale è possibile e costituisce uno scopo del trattamento, sanare i danni di una presunta carenza di cure fornendone di vicarie, insieme a empatia, rispecchiamento, ecc. Evidentemente le implicazioni etiche di questa differenza di prospettive nella direzione della cura sono immense. Non che nel corso di una analisi non ci si trovi di fronte all’impasse dovuta alla roccia basilare freudiana, anzi, accade quasi sempre. Il punto è tenere presente che, oltre il sogno (l’universale che punta alla madre) di Freud, esiste un padre chiamato a rispondere all’interrogativo freudiano -che cosa vuole una donna? – e a cimentarsi con il godimento della singola donna che ha scelto e dalla quale è stato scelto.