ADULTI CHE TACCIONO
ADULTI CHE TACCIONO
Lucio Demetrio Regazzo
Versione nella lingua inglese
David Purpura e Ernesto Spinelli
Regent’s School, London
Percorrere la vita a piedi nudi
E incontri ciechi:
Che gara!
Tra noi e il tempo.
Tra nascita e tramonto Non c'è frattura è tutto un continuum di sogni
A volte esistere non basta:
C’è chi prega una croce e recita il rosario
Chi si sbronza
Oppure chi si uccide perchè senza sogni
O perchè ne ha troppi.
...........................
(Domenico Turco)
Aprire la presentazione di un lavoro scientifico, qual'é una ricerca sul campo, con frammenti di una poesia è insolito; lo è meno se scopriamo che il poeta è un poeta-bambino che compone sui temi del tempo e del morire e se i suoi componimenti risultano emblematici del rapporto tra cultura e tempo, tra cultura e morte.
I contenuti che ricorrono in Turco sono probabilmente dettati da una grave malattia che lo affligge dall'età di otto anni, ma ciò non riduce il nostro stupore nel cogliere dentro i versi tratti dal componimento "Morale" il tema della temporalità, caro a Binswanger, e seppure in embrione e
con espressioni ancora magiche il problema della ricerca di significati di V. Frankl. Nell'ultima strofa presentata ci sembra poi di leggere le concretizzazioni di quella che L. V. Thomas chiama cultura tanatofobica, una cultura organizzata per offrire vie di evitamento e di repressione dell'idea di morte, portando così sviluppare rituali sociali e comportamenti individuali spesso patologici.
Ma nel poeta vi è soprattutto la constatazione della cecità del mondo degli adulti. Non ci sono i toni accusatori della Raimbault che nel suo "Il bambino e la morte" scrive:
“.. se il bambino non incontra nessuno che sappia accostarsi a lui, ma solo silenzio e menzogne, non gli resta che tacere a sua volta” (2).
Di Turco si colgono solo annotazioni di come la sensorialità visiva sembra indebolirsi ed appannarsi di fronte alla morte.
L'Autore scrive sul non vedere, noi vorremmo andare oltre, scrivendo sul non parlare; egli annota, noi vorremmo ancora andare oltre, individuando responsabilità in una cultura che ci appare sempre più cieca e muta rispetto ai grandi significati dell'esistenza. L'aspra accusa di Husserl al positivismo ancora alla fine dell’800 appare caduta nel vuoto finchè si leggono questi poeti bambini e sinchè ricerche come la nostra portano agli esiti descritti più avanti.
Probabilmente abbiamo percorso ancora poca strada da quando Husserl affermava:
Questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono più scottanti per l'uomo ...; i problemi del senso dell'esistenza umana nel suo complesso. (3)
Il modello fenomenologico husserliano è stato dai più, e spesso a torto, considerato un tentativo di negare la scienza, di distruggerla. Ciò è soprattutto è dipeso da cattive interpretazioni positivistiche e neopositivistiche: l'osservazione del filosofo tedesco, secondo la quale non possiamo analizzare la realtà esistente ma solo le cose così come esse ci appaiono, è divenuta il paradigma del rifiuto delle astrazioni e delle costruzioni scientifiche. In realtà il modello fenomenologico ed in particolare la Psicologia Fenomenologica astrae e costruisce "proprio come le psicologie mediatistiche: soltanto, a differenza di queste ultime, cominciano ad astrarre e a costruire non fin dal dato, ma
dopo il darsi impregiudicato del dato, che mantengono in ogni caso distinto dalle sue interpretazioni o spiegazioni ..." (4).
Non vogliamo comunque, in queste pagine, argomentare a difesa della filosofia husserliana, bensì sottolineare che la radice di quei filoni di pensiero e di quelle epistemologie che si sono sviluppate dalla fenomenologia e che hanno permesso di compiere quel breve percorso, di cui abbiamo scritto più sopra, è sana e non aprioristicamente contro la scienza. Purtroppo, l'ontologia di Heidegger che tende a spostare l'attenzione sui fondamenti dell'esistenza, l'esistenzialismo di Jasper, l'antropoanalisi di Binswanger e, infine, l'analisi esistenziale di Frankl, non hanno ricevuto ancora l'ascolto dovuto.
Osserviamo, certo, che un numero sempre maggiore di categorie scientifiche si interroga sul meccanismo perverso che rende il prodotto scientifico stesso strumento di offesa contro l'uomo, piuttosto che conquista per la qualità dell'esistenza. Oggi vi è anche preoccupazione, e non solo entusiasmo, per le ricerche di fisica nucleare, per la manipolazione genetica, per la computerizzazione del vivere. Ma il delirio collettivo di onnipotenza, promosso dal positivismo ammala troppe comunità della scienza e troppe istituzioni responsabili della trasmissione generazionale delle conoscenze.
Il fascino delirante di controllare tutta la realtà, a cui sottende un desiderio magico di rendere l'uomo immortale, è ancora così forte da rendere invisibile o disconosciuta la velocità troppo diversa con cui procedono scienza e acquisizione di valori ed atteggiamenti congruenti con i limiti e gli scopi dell'esistenza. Se queste velocità non verranno portate ad eguali vettori, assisteremo con crescente frequenza alle conseguenze deleterie di un ambiente, di una cultura e di progetti esistenziali individuali creati nell'ignoranza sui grandi significati ontologici.
E’ necessario iniziare a individuare i fulcri istituzionali che concorrono al perpetuarsi di questa ignoranza disarmante per il bambino prima e per l'adulto poi.
Abbiamo scelto come oggetto tematico la morte, perchè in questo particolare periodo storico i mass-media investono continuamente i bambini con immagini e parole di morte, prodotte spesso con strumenti scientifici usati contro l'uomo, determinando un investimento sempre più negativo dell'idea del morire, che viene così ulteriormente associata
ad angosce e paure; ed abbiamo scelto come campo di indagine la scuola in quanto, come confermano i molti autori che hanno studiato e scritto sul problema della morte (5), i processi educativi hanno una grande rilevanza nel determinare i vissuti e le rappresentazioni di morte nell'individuo. E’ necessario quindi esaminare i sistemi educativi di una società per creare presupposti funzionali e adeguati a sviluppare un'educazione tanatologica che indichi al bambino “una direzione corretta di sviluppo di questo modo di vivere e di rappresentarsi la morte”(6).
Vero è che ogni società si regge su più complessi educativi e non solo su quello scolare: vi è una educazione famigliare che precede quella scolare, vi è poi una educazione dei sistemi di comunicazione che interagisce con quella famigliare e scolare. Ma se non tutto si può ricondurre alla scuola, si deve riconoscere l'oggettiva importanza che essa ha nella trasmissione di conoscenze, atteggiamenti e valori, così come va ammessa l'evidenza che, essendo la stessa un'istituzione a cui la civiltà demanda il compito di garantire anche la tradizione scientifica e culturale, specchia la cultura in cui è necessariamente inserita.
Inoltre non si può pensare alla scuola solo nei termini di luogo in cui si trasmettono conoscenze e si insegnano abilità per rendere il bambino un futuro adulto efficiente nel sociale e nel mondo del lavoro; il rapporto stabilito con insegnanti e coetanei è decisivo nell'influenzare lo sviluppo della personalità.
L'ambiente scolastico interviene in questa età come variabile di significato e, a volte in maniera determinante, nella creazione del progetto esistenziale del bambino, del suo chi sono, delle modalità con cui il suo io si dispiegherà o si ritrarrà nelle future esperienze di vita, dell'etica su cui poggiare e dell'atteggiamento al quale riferirsi per rispondere ai quesiti più inquietanti sul proprio vivere.
E' implicito che lo sviluppo di un sano copione esistenziale non può avere come unici stimoli richieste di adattamento cognitivo, sociale e affettivo che vengono comunque rivolte al bambino, ma richiede all'educatore una preparazione cognitiva ed emotiva per proporre interventi che conducano all'elaborazione soggettiva del significato dell'esistenza. Si corre altrimenti il rischio segnalato da Fornari e Adorni, che alcuni valori trasmessi dalla scuola si pongano in contrasto con i suoi scopi educativi e formativi (7).
In considerazione quindi della rilevanza del ruolo assunto dall'istituzione scolastica, sarebbe opportuno che gli insegnanti avessero una serie di competenze ed una evoluzione psicologica tale da permettere loro di proporre una pedagogia della morte, nel senso di una pedagogia che non tenti di fuggire la consapevolezza della morte come parte dell'esistenza, e, mutuando da V. Frankl, una pedagogia della vita, della sofferenza, del lavoro e dell'amore.
Nel pensare questo avvertiamo il pericolo di fare della categoria degli insegnanti il capro espiatorio dei limiti di un sistema educativo nato e consolidato perché il bambino impari ad essere attrezzato alla competizione sociale acquisendo quante più conoscenze tecniche possibili e tralasciando o appiattendo la sua naturale curiosità e propensione all'acquisizione dei significati esistenziali.
Ma noi crediamo che l'educatore, piuttosto che responsabile dell'ignoranza propria e sociale sul tema della morte che si evidenzia nella ricerca presentata, ne sia in qualche modo vittima sotto una duplice prospettiva:
vittima perchè chiamato ad una responsabilità di rilievo senza aver ricevuto di contro gli strumenti e la preparazione necessari per farvi fronte,
vittima perchè, membro di una cultura che ha elevato la tanatofobia a strumento sistematico di difesa, si trova a dover disattendete con l'intento di reprimere, domande e curiosità legittime nei bambini, e che possono essere eluse solo con il silenzio o la menzogna.
Le diverse ricerche sullo sviluppo delle rappresentazioni cognitive e dei vissuti di morte nelle varie età dell'infanzia, condotte fin dal 1946 (8) sia con il metodo sperimentale, sia con il metodo clinico, concordano sul dato che la coscienza della morte come dato irreversibile e riguardante la propria persona compare nel bambino attorno al 7’ anno di età, mentre la relazione tra invecchiamento biologico e morire si stabilisce intorno al 9' anno.
Nonostante il nostro sapere sulla coscienza infantile della morte risalga a quasi 50 anni fa, la maggior parte degli adulti continua a credere che il bambino - almeno il bambino in età scolare - non abbia idea della morte e del morire; questa idea o, forse meglio, questa difesa dell'adulto è tanto diffusa che G. Raimbault, la maggiore studiosa di tanatologia infantile, nel 1975 scrive: vogliamo denunciare anzitutto il silenzio, il disconoscimento, le lusinghe con le quali l'adulto costruisce un muro: un muro fra il bambino e la morte, in verità tra la morte e sè stesso.
Con questa frase l'autrice sottolinea due problemi fondamentali, rimarcandone una funzione negativa per lo sviluppo del bambino:
- la mancanza nelle società occidentali di una cultura che sostenga il bambino nel suo approccio con l'idea della morte,
- il fatto che la mancanza di sostegno al bambino nell'acquisizione del concetto di morte possa si dipendere da un'ignoranza sui bisogni e sullo sviluppo cognitivo ed esistenziale del bambino stesso, ma che questa ignoranza adulta sia soprattutto un modo per allontanare da se stessi l'idea della propria morte.
Sulla strada del secondo problema posto dalla Raimbault, altri autori si sono spinti più avanti. L. V. Thomas afferma (9) che le culture occidentali organizzano le proprie credenze, valori e regole attorno ad un motivo fondamentale: allontanare dai membri della società l'idea della morte.
L'autore nel suo libro Antropologia della morte pone in rilievo come ovunque gli atteggiamenti ed i vissuti individuali nei confronti della morte siano in parte attribuibili all'ambiente culturale della civiltà in cui il soggetto è inserito e di cui è l'espressione; questa li trasmette al singolo membro attraverso l'educazione e l'atmosfera sociale che le sono proprie.
Per le civiltà occidentali Thomas sottolinea due aspetti fondamentali correlati tra loro e attinenti al tema che stiamo trattando:
- atteggiamento verso la morte: angoscia e fuga davanti alla morte necessaria. Viene soprattutto considerata quella morte che può essere sconfitta da uno sviluppo scientifico. Quindi l'atteggiamento di base è di tipo tanatofobico;
- pedagogia della morte: inesistente; nei primi anni di vita viene accuratamente evitato ogni insegnamento sulla morte.
A. Fuchs nel 1973 (10) scrive: Gli adulti accettano la realtà della morte, segnatamente della propria, tanto poco quanto i fanciulli, ... le pretese infantili di onnipotenza non si perdono affatto di colpo nell'adolescenza. Ciò significa che il processo di apprendimento all'interno del quale il fanciullo si appropria di un concetto realistico della morte è esso stesso, in sostanza, incompleto... poiché il mondo degli adulti offre al fanciullo mezzi sufficienti per sfuggire al riconoscimento della morte.
Già nel 1984, su altre pagine (11), sostenevamo che l'idea della morte ha due principi costituenti nel pensiero umano: uno culturale, l'altro individuale.
Il primo, essendo un aspetto comune a tutti i membri di una civiltà, è necessariamente trasmesso attraverso l'educazione e, per quanto riguarda la nostra cultura, viene identificato negli atteggiamenti tanatofobici verso la morte, il morente, i defunti e nell'inesistenza di una pedagogia della morte.
Il secondo principio è rappresentato dal tentativo di ogni esistente di dare una risposta razionale od emotiva che possa ridurre l'angoscia della tanatofobia trasmessa dall'ambiente sociale.
In questo senso individuo e cultura, individuo ed educazione, possono contrapporsi, perchè la tradizione culturale offre un terreno inidoneo per lo sviluppo di un rapporto esistenziale adeguato tra soggetto e morte.
In altre parole, se il soggetto tende verso la conquista non angosciante della realtà della propria finitezza, il sociale limita quel processo di crescita proponendo come alternativa la negazione o il rifiuto della realtà della morte.
Vogliamo sottolineare ancora che il commento ai dati risultanti dalla ricerca che presentiamo più avanti - dati ancora meno incoraggianti di quanto già ci attendessimo - non deve essere frainteso come critica ad una specifica categoria di operatori che si trova impegnata nel difficile compito di educare.
Il monito, pure aspro, è verso il sistema educativo sociale e scolare, e non ha interessi distruttivi, quanto speranza di richiamare attenzione ed energie perchè venga ridotta di ampiezza la divaricazione fra pedagogia scolastica e pedagogia esistenziale.
I bambini di oggi avranno forse bisogno di essere poliglotti, esperti di informatica e cibernetica, oltreché di conoscenze più tradizionali, per poter sopravvivere adulti domani; ma per vivere, superando la semplice sopravvivenza, hanno certamente bisogno di essere accompagnati verso una comprensione del senso dell'esistenza. Perciò è necessario promuovere un modello educativo scolastico che contenga una chiara pedagogia esistenziale.
Il procedere dell'uomo non è fatto solo di bella calligrafia, addizioni, poliglottismo, o altri saperi, ma si snoda su fenomeni che richiedono sensibilità e consapevolezza su tematiche esistenziali ben più importanti di quelle tecniche, quali: il rispetto della vita, della differenza, della debolezza; l'accettazione della sofferenza; la ricerca di un senso al proprio fare; il dispiegarsi verso l'altro e verso l'amore; l'accordarsi con la temporalità che segmenta il vivere umano. Frankl diceva che per apprezzare ed amare la vita è necessario accettarne i limiti temporali; considerazione difficilmente confutabile che permette tuttavia di essere ampliata dalla riflessione che il rispetto del diritto alla vita di ogni essere vivente, senza che questa venga interrotta o deviata da qualsiasi forma di violenza, passa attraverso la conquista dell’amore per la propria vita.
Ma se accettare l’altrui e la propria morte apre ad una maggior pienezza dell’esistere ed alla accoglienza di ogni altro-da-noi, allora con la Raimbault anche noi lamentiamo il silenzio degli adulti e stimoliamo se non altro quegli adulti cui spetta l’onere ed le prerogative dell’istruzione istituzionale a smettere di tacere con se stessi e ad iniziare a parlare con i bambini.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
1. Turco, Sottovoce, Venilia Editrice, Montemerlo (PD)
1994, tratto dalla poesia “MORALE”.
2. G. Raimbault, Il bambino e la morte, La nuova Italia
1978.
3. S. Marhaba, Antinomic Epistemologiche, Giunti Barbera,
Firenze 1976.
4. P. Nonis, Religione e paura, Piovan Editore, Abano T.
1979.
5. Muensterberger, 1963; Canestrari e Campione, Rappre-
sentazione e vissuti della morte, in “Fornari e Adorni,
Trattato enciclopedico di Psicologia dell’età evolutiva.
Piccin Editore, 1990.
6. Canestrari e Campione, ibidem.
7. F. Fornari, Adorni, ibidem.
8. Gesell è Ilg, The Child from five to ten, The Century
Co., N.Y. 1946.
9. L.V. Thomas, Antropologia della morte, 1976.
10. A. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna,
Einaudi, Torino, 1973.
11. L.D. Regazzo, Morte, amore: principi di vita, Piovan
Editore, Padova, 1984.
Questo articolo verrà pubblicato in lingua inglese sul JOURNAL
OF THE SOCIETY FOR EXISTENTIAL ANALYSIS, edito da
H.W. Cohn. – S. Du Plock Londra, nel n° 2 – anno sesto, 1995
con il titolo: in “THE SENSE OF DEATH IN CHILDHOOD:
AN INVESTIGATION AMONG PRIMARY SCHOOL
TEACHERS IN PADUA AND THE PROVINCE OF
VENETO”.